Parma, teatro Regio, “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini
DUE SOLITUDINI SI SOMMANO, INVECE DI ANNULLARSI
La Manon Lescaut pensata da Stephen Medcalf per l’inaugurazione della stagione del Regio di Parma è una Manon di avvicinamento e di sottrazione. All’inizio Renato salta fuori all’improvviso da un palco di proscenio e sfoglia lettere, forse d’amore, spero d’amore. Sul sipario una grande carta geografica della Francia (è della Francia, ne sono sicuro, nonostante le mie vicine si chiedano “che c’entra la mappa dell’Africa?”) viene ingrandita sempre più fino a focalizzare, come un bersaglio, la città di Amiens in cui è ambientato il primo atto. Poi il sipario si alza ed appare una spoglia pedana di legno circondata da “forche” a cui sono appese insegne di negozi. Una splendida scenografia senza tempo di Jamie Vartan, essenziale e significativa, in cui si muovono i personaggi in abiti del Settecento (costumi sempre di Vartan). L’intervento di Medcalf è nel segno della tradizione, con idee apprezzabili. Bellissimo l’arrivo di Manon, la cui carrozza è trasformata in una specie di transatlantico che si avvicina, ligneo e scuro, dal fondo scena. Bellissimi tutta una serie di particolari che dimostrano una notevole cura nell’allestimento. Alcuni esempi: il “bastimento-carrozza” da cui scende Manon: si avvicina un muro di legno, si aprono due botole-finestrini e una porta-scaletta da cui lei scende, rivelando l’interno di una carrozza-vagone ferroviario; in alto si apre un’altra botola grande rettangolare che rivela i “timonieri” del mezzo; durante tutta la lunga scena che segue i due seguono gli eventi con una curiosità segretamente indifferente, con la sublime indifferenza di chi osserva la realtà ma ha dei dubbi se egli appartiene o no a quella realtà che sta osservando. Oppure l’inizio del secondo atto, Manon al centro su una sedia coperta da un enorme telo si fa truccare mentre intorno a lei otto ragazze si truccano agli specchi. Bellissimi i fermi d’immagine del primo atto, quando nei momenti riservati a Manon e Renato i personaggi che affollano la scena si bloccano. Bellissime le luci di Simon Corder, teatralissime, spesso di taglio, che creano inusuali chiaroscuri ed effetti di particolare intensità. Bella la scelta di decolorare il secondo atto e presentare tutto in bianco e nero, segno della patina del tempo e anche dell’essenzialità, oltre gli orpelli ed il superfluo. Bella la scelta registica per cui Renato spesso assiste alla vicenda da un palco di proscenio, oppure la presenza dei cicisbei sugli stessi palchi che omaggiano Manon. Bellissima l’idea scenografica: dopo le insegne di negozi del primo atto alle “forche” pendono grandi ovali con specchiere nel secondo atto e con grate di prigione nel terzo e tutto scompare nel quarto. Sottrazione, come dicevo: alla fine via tutti gli elementi scenici per far posto al vuoto, a una distesa sterile e disabitata, al deserto, che è il vuoto che io immagino, quello dell’anima, quello della solitudine, quello dell’intimo di ogni uomo, in cui però (come nel deserto vero) basterebbe una goccia d’acqua per far spuntare improvvise palme verdissime. E invece le solitudini si sommano, anziché annullarsi.
Sottrazione e avvicinamento: la descrizione geografica dell’ambiente continua in ogni atto, dopo Amiens Parigi, poi l’intermezzo, con il viaggio da Parigi a Le Havre che è semplicemente sulla cartina, con immagini successive alternate alle parole d’amore di Renato vergate su una lettera, e infine Nuova Orleans. Questo a connotare immediatamente il luogo, a completamento di una scenografia invece priva di elementi denotativi e cifre riconducibili ad un determinato dato spaziale, in linea con l’universalità della vicenda raccontata. Che alla fine è solo la storia di un’insensibile egoista, di una furba che si approfitta di un “poveraccio” innamorato di lei, una persona nella quale l’amore non riesce a nascere se non per divenire egoistica affermazione della propria egoistica soddisfazione. Ma l’amore non è più simbolo di valori morali, come invece lo era, fermissimamente, per Verdi. Altri tempi, forse. Altri tempi, purtroppo.
A queste belle cose si oppongono invece due brutte invenzioni di Medcalf. Una è nel secondo atto: Renato entra in portantina direttamente nel salotto di Manon e ascoltando Manon cantare “Tu, amore, sei tu, mio immenso amore?” la sua immediata preoccupazione, appena sceso dalla portantina, è attraversare tutto il palcoscenico senza curarsi di lei e ruotare una delle specchiere, gestualità priva di ogni senso. L’altra è nel quarto atto ed è peggio ancora: alla fine Manon, distesa a terra, letteralmente sprofonda sotto terra. Orribile. Peccato, perché sarebbe un momento altamente suggestivo, accompagnato da luci rossastre assolutamente emozionanti. (basterebbe che nelle repliche successive non funzionasse il meccanismo che permette al palcoscenico di abbassarsi..).
Manon Lescaut è molto diversa dalla Manon di Massenet ed è un’opera in fuga da se stessa, come la definisce il regista nell’ottimo programma di sala: “ogni atto cancella quello precedente con il precipitare degli eventi. (…) Dove porta il movimento che ci comunica Manon Lescaut? Verso il nulla, perché il quarto atto ci presenta un deserto, una terra di nessuno. Un quadro vuoto.”.
Nel ruolo del titolo la giovane canadese Michele Capalbo ha voce di colore scuro (troppo scuro) e un timbro corposo. Ai difetti di pronuncia si sommano debolezza di emissione e poca espressività nella voce e nella mimica tanto che tutto il finale è cantato in modo non udibile. Certo che il ruolo era stato pensato addosso a Daniela Dessì, artista sublime..
Invece Marcello Giordani si rivela vivace e giovanile, ben adatto a Des Grieux: ha un ottimo squillo, attacchi precisi e puliti, un bel registro acuto che compensa ampiamente il grave un poco opacizzato, per cui giustamente si concentra sul medio e sull’alto come il giovanile ruolo permette. Accanto a loro Carmelo Corrado Caruso è un convincente Lescaut, Angelo Romero un maturo Geronte, Luca Casalin un bravo Edmondo; Roberto Tagliavini, Paolo Barbacini, Alessandra Canettieri, Nicola Pascoli e Emiliano Esposito completano il cast.
Pier Giorgio Morandi ha condotto l’ottima orchestra del Regio rispettando la partitura e senza cercare novità o effetti particolari, ma in modo monocolore e con momenti di eccessivo volume nel secondo atto. Espressivo e partecipe il coro del Regio, ben preparato da Martino Faggiani.
Insomma un bello spettacolo con un brutto finale. Tutti, un giorno, quando andremo via, porteremo con noi ogni nostro sentimento, desiderio, ricordo, ma lasceremo le nostre impronte. Ecco, mi sarebbe piaciuta di più l’impronta di Manon, non quel buco nel terreno.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Parma, teatro Regio, il 18 dicembre 2005
Visto il
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Regio
di Parma
(PR)