Lirica
MANON LESCAUT

Tutto è deserto

Tutto è deserto

Manon Lescaut è la prima opera matura di Puccini e, come scrisse egli stesso per distinguerla da quella di Massenet ispirata allo stesso soggetto, “Lui la sentirà alla francese, con la cipria e i minuetti, io la sentirò all’italiana, con passione disperata”.
La Manon Lescaut di Puccini è infatti incentrata sull’amore impossibile frutto di una passione bruciante e maledetta minata alle radici, un amore destinato alla sconfitta che trova nella desolata landa finale la propria rappresentazione. Ed è proprio da questa immagine, un metaforico deserto dell’anima, che parte Chiara Muti, attrice e figlia d’arte, che ha curato la regia del nuovo allestimento dell’Opera di Roma.

Lo spettacolo si apre e chiude in un deserto cinereo: la cifra dell’impianto scenico ideato da Carlo Centolavigna sono infatti dei rilievi ondulati simili a dune che fanno da sfondo costante al dramma e su cui si sovrappongono puntuali elementi scenici  per suggerire le diverse ambientazioni della vicenda. L’allestimento tradizionale, esteticamente molto curato e gradevole, rispetta un’ambientazione settecentesca ripulita di cipria e merletti e procede per tableaux di marcato gusto pittorico grazie all’uso puntuale delle luci di Vincent Longuemare che accendono l’orizzonte di una calda luce desertica, si declinano in tutti i toni del grigio, scolpiscono le masse e isolano i protagonisti sotto suggestivi coni di luce. Il movimento scenico, in particolare nelle controscene del secondo atto, è curato e ci sono alcuni spunti interessanti ma non sono abbastanza sviluppati da diventare forti: la regia poteva forse osare di più anziché conformarsi a uno stile conservativo a tutela del canto e del libretto. La scelta di ridurre una vicenda ricca di colpi di scena e dalla forte progressione drammatica a un flash black può essere interessante ma non funziona, la figura di Des Grieux risulta sbiadita e l’eterno femminino di Manon/Netrebko viene ridimensionato da un racconto a ritroso. Un peccato non sfruttare appieno il sex appeal e le straordinarie doti sceniche della protagonista!

In apertura, illuminate da una luce fredda e cinerea, giovani donne sdraiate sulle dune sembrano risvegliarsi al canto di Des Grieux; la luce muta e acquista colore all’entrata in scena di Manon che vedremo poi in un bel fermo immagine sul balcone della locanda ai lati della scena intenta ad assaporare la sensualità della notte. Il secondo atto vede una sorta di padiglione in ferro, vetro e specchio che lascia intravedere oltre i vetri le dune e ricrea un ambiente settecentesco raffinato e leggero dove vediamo Manon sdraiata sul letto riflessa allo specchio. La pantomima che accompagna il madrigale suggerisce un Settecento vivace non troppo incipriato: Manon immobile come una statuina di biscuit su di una piattaforma girevole illuminata dall’alto a danzare il minuetto funziona perché, nel lieve movimento delle braccia, c’è tutta l’incantatrice.
A Le Havre oltre le dune si vedono (piccola ingenuità) gli alberi di un veliero che avanza e alla fine arriverà  una nave gigante sul lato destro e si sfiora l’effetto kolossal. In America le dune sono completamente deserte, illuminate da luci mutevoli sempre più livide, e alla fine il cerchio di luce sulla coppia sdraiata a terra si restringerà sempre più fino a scomparire nel nulla. Alessandro Lai firma tradizionali costumi settecenteschi che, nonostante la profusione di mezzi, sembrano già polverosi e non rendono giustizia alla sensuale bellezza della protagonista (peraltro di nuovo in gran forma!) occultata da trine, corsetti e pellicce.

Che Anna Netrebko possa essere per temperamento una Manon Lescaut ideale è indubbio (lo pensavamo già qualche anno fa quando interpretò quella di Massenet), ma ora sorprende per la perfetta aderenza vocale e non è azzardato accostare la sua interpretazione ad interpreti di riferimento del passato. La Netrebko dimostra di avere raggiunto un’incontestabile maturità artistica (determinante il lavoro preparatorio condotto con Muti per il debutto nel ruolo) e convince  per la cura e perfezione con cui affronta ogni nota e parola. E’ la capacità di modulare sulla parola la voce sontuosa dall’inconfondibile timbro scuro la nuova sfida di Anna Netrebko, che, abbandonati i ruoli leggeri (assolutamente condivisibile la scelta di annullare Marguerite di Gounod prevista a Londra e Vienna), si sta orientando verso un altro repertorio, Verdi in primis, dove dizione e capacità di accento sono fondamentali. All’ascolto sembra tutto così perfetto da non sembrare live, ci snocciola come se niente fosse un “nelle trine morbide” tutto sul fiato, con una tale chiarezza di espressione, uso delle mezzevoci e acuti luminosi che è come se lo cantasse da sempre. La voce è piena senza risultare pesante, capace di sfumare, assottigliarsi per poi espandersi potente senza nulla sacrificare al lirismo di fondo.
Ci piace la leggerezza da seduttrice consumata consapevole di esserlo ma è soprattutto nel virare alla tragedia con moderna disillusione che ritroviamo la Netrebko autentica: “sola perduta abbandonata” è una lucida constatazione priva di enfasi e quanta sensualità in  “terra di pace mi sembrava questa”, dove il ricordo della felicità perduta rivive nello spazio di una battuta.

Il giovane Yusif Eyvazov è un Des Grieux dotato di mezzi vocali interessanti, ma ancora “grezzi” per la tecnica da perfezionare, e nel confronto con la Netrebko risulta un po’ smarrito: una tale Manon vorrebbe un amante dalla personalità più spiccata, vocale o interpretativa che sia. Giorgio Caoduro è un Lescaut giovane e spregiudicato, decisamente complice della sorella; la voce è ben modulata e se ne apprezza la capacità di accento. Davvero ottimo Carlo Lepore per il canto sonoro e incisivo e un’indubbia vis teatrale che per una volta ci fa piacere il ruolo di Geronte. Musicale e garbato l’Edmondo di Alessandro Liberatore. Ben definiti i ruoli minori: Roxana Constantinescu dona al Musico voce accurata e giusta levità settecentesca, Giorgio Trucco è un ottimo Lampionaio. Completano adeguatamente il cast Andrea Giovannini (Maestro di musica), Gianfranco Montresor (Sergente degli arcieri), Paolo Battaglia (Comandante di Marina) e Stefano Meo (Oste).

Riccardo Muti torna a Manon Lescaut, uno dei pochi titoli pucciniani da lui diretti, con cui si era già confrontato alla Scala nel 1998. Grande rilievo hanno le timbriche strumentali morbide e vaporose, ma sempre ben definite, il cesello nel restituire un Settecento di maniera con un gusto del contrappunto che rivela l’inconfondibile impronta del direttore.
Quello che più si apprezza è la perfezione nell’accompagnare e sostenere il canto della protagonista con rara sintonia: se la Netrebko ha pienamente convinto il merito va anche al Maestro. L’intermezzo è lento, quasi intimista, sospeso in una sobria malinconia, troppo poco melodramma forse, ma perlomeno nessuna enfasi né sdolcinatezza: la lettura di Muti sembra tendere a una tragicità composta e anche l’introduzione a “sola deserta abbandonata” è su questa linea, chiara, analitica, di funerea bellezza. La direzione non vuole accentuare una progressione drammatica quanto piuttosto indulgere nel ricordo e la musica anziché portare avanti l’azione sembra consumarsi in essa: tutto è finito. 
Ottima la prova dell’orchestra che, sotto la guida autorevole, si conferma compagnie di livello per accuratezza e precisione. Bene anche il coro preparato da Roberto Gabbiani.

Pubblico soddisfatto ma non abbastanza caloroso, considerate le punte di eccellenza della produzione.

Visto il