Milano, teatro alla Scala, “Manon” di Jules Massenet
LA MIA VITA E’ NEL TUO CUORE, LA MIA VITA E’ NEI TUOI OCCHI
Mi sono sempre chiesto se Manon, sentimentalmente, sia cattiva o semplicemente superficiale e ancora non ho trovato la risposta, sebbene in pochi mesi ho avuto la fortuna di vedere rappresentate tante e diverse Manon, la versione coreografica di MacMillian, due Manon Lescaut di Puccini e ora la Manon di Massenet: interessante è stato confrontare come, nonostante i diversi linguaggi espressivi, nonostante il diverso significante (come direbbero i semiologi), il risultato non cambia nel significato.
La Manon di Massenet è definita nel libretto “opera comica” solo perché alterna parti cantate a parti recitate, qui peraltro con un sottofondo orchestrale, splendidi recitativi accompagnati che mostrano le infinite nuances della lingua francese nelle mani del compositore. Infatti Massenet, pur rispettando apparentemente le regole dell’opéra-comique, ne ribalta completamente gli esiti, poiché i parlati non hanno più una chiara struttura a pezzi chiusi, anzi si fondono in una trama musicale continua, esprimendo non solo le piccole cose banali della vita quotidiana, ma anche i momenti di massima drammaticità e di più intensa passione d’amore fra Manon e Des Grieux. Per ottenere questo risultato Massenet non si affida all’abilità del direttore, ma scrive assolutamente tutto: intensità del suono, levigature, accenti, respiri, fraseggio, espressione.
Redigendo il libretto, gli autori ricalcarono grosso modo i momenti del romanzo, la cui intricata vicenda subiva però una drastica semplificazione; invece non venivano semplificati e impoveriti i caratteri, che anzi, complice la più scaltrita psicologia della fine dell’Ottocento, appaiono più ricchi di sfumature ed approfonditi.
La cornice ambientale ha lo stesso spazio delle vicende dei due protagonisti, che tuttavia non risultano sminuite, anzi, ancor meglio individuate e descritte. Il primo di questi momenti fondamentali è dato dall’apparizione di Manon e dalla repentina passione di Des Grieux (“Succede così, all’improvviso, che ti innamori” avevo scritto in occasione del balletto alla Scala). Puccini adotta un taglio più conciso, concentrando tutto il suo interesse sulla tragica storia d’amore e morte dei due protagonisti e giungendo rapidamente all’incontro fra i due, mentre Massenet vi giunge gradualmente (“Il mio cuore vi ha riconosciuto”). Il successivo momento fondamentale è quello della felice vita a due dei giovani amanti, che Puccini (che sente sempre l’amore come fonte di disperazione e causa di morte) omette, facendo piombare la sventura su Manon in pochi istanti alla fine del secondo atto, dove Massenet la prepara con accorta regia attraverso un quadro intero (con la famosa scena di gioco che deriva dalla Traviata e anticipa la Dama di picche).
Con l’essenzialità dell’atto finale, Massenet si rifà agli indugi degli atti precedenti e salta completamente le scene della deportazione e dell’imbarco: per lui Manon non muore in Luisiana ma sulla strada per Le Havre. Differenza non da poco, se si considera che solo nell’esilio Des Grieux riesce ad avere in suo potere Manon. A Des Grieux è negato il completo possesso di Manon, il possesso della sua anima, che resta un mistero insondabile, una realtà inafferrabile, “sphinx étonnant”.
Un momento chiave è quando Des Griex è costretto ad ammettere una triste verità: la sua vita è ormai nel cuore di Manon, nelle mani di Manon. Il nucleo del dramma psicologico è il fatto che egli è tra le braccia di una sirena, è preso dai fantasmi di una visione che non corrisponde alla reale Manon. In altre parole il dramma di Des Grieux si consuma comunque, indipendentemente dall’oggetto del suo amore, perché la minaccia alla sua vita non viene da una persona concreta, quanto da una proiezione, dall’esaltazione ideale di un amore sfuggente che darebbe significato alla sua vita.
Manon diviene l’immagine di un archetipo femminile, che turba i sogni, colei che si lascia stringere fra le braccia ma non concede la sua mente e il suo cuore. Des Grieux appare come il predestinato, succube dell’incantesimo di Manon a cui non può sottrarsi: le sue parole hanno sempre un tono malinconico, riverbero di un’insuperabile lontananza tra lui e l’oggetto del suo amore. Per tutta l’opera Des Grieux cerca di afferrare questa immagine d’amore che ogni volta gli sfugge; ma quando è lui che cerca di fuggire per mettersi in salvo e potere ricominciare a vivere, cercando una risposta e una sicurezza altrove, seguendo un desiderio di oblio, aggrappandosi a una insoddisfatta speranza di dimenticare (“Il suo cuore, guarito dalla ferita , si è rinchiuso … quando si è saggi si dimentica”, anche se, secondo me, a volte bisogna lasciare le ferite aperte), insomma quando lui si allontana fisicamente e psicologicamente è lei che lo cerca, lo riafferra, lo riporta in una condizione di dubbio esistenziale, di lacerazione, di sensazione di incompletezza. Il dramma dell’assenza.
Alla Scala l’opera è andata in scena in edizione integrale, cioè con la scena del Cours-la-Reine, ma con numerosissimi tagli nella partitura. Le realistiche scenografie di Ezio Frigerio e i sontuosi costumi di Franca Squarciapino creano una bella cornice, ma non convince la regia di Nicolas Joël, improntata a una notevole staticità più per mancanza di idee che per scelta consapevole (soprattutto a danno del coro). Il giovane maestro Ion Marin si impegna molto per ottenere dall’orchestra una notevole intensità interpretativa ma non sempre ci riesce, nell’affrontare una partitura dai toni crepuscolari, dai modi delicati, dalle infinite atmosfere, raffinate ed eleganti.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 19 maggio 2006
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)