“Maometto II” di Rossini è un’opera ardua, caratterizzata da una forte tensione drammaturgica e ricolma di idee musicali strepitose. Accolta con scarso successo al San Carlo di Napoli nel 1820, la partitura venne riutilizzata dal suo autore in due occasioni: prima a Venezia nel 1823, dove fu variamente modificata, interpolata con autoimprestiti e vòlta a un epilogo lieto, e poi a Parigi nel 1826, quando fornì mattoni copiosi e cospicui a “Le siège de Corinthe”. La redazione partenopea, che è quella proposta dal Teatro dell’Opera di Roma, costituisce una tappa singolare nella parabola creativa del maestro pesarese, che in essa rivela il possesso sicuro di un lessico serio ricco e coeso e la volontà di conferire continuità al flusso degli eventi scenico-musicali, concatenati o giustapposti attraverso un libero gioco sulle forme e le convenzioni. All’assetto originalissimo contribuisce il libretto, fornito dal letterato napoletano Cesare Della Valle duca di Ventignano: i versi sono spesso ampollosi, la sintassi è talvolta contorta, ma le situazioni e le tinte sono efficaci e varie, e il plot combina in modo plausibile le azioni collettive e i tormenti individuali, il clangore della battaglia e l’intimità del tormento, la marcia e la preghiera, lo sdegno e l’amore. Le tante e diverse occasioni offerte dal testo poetico vengono sfruttate magistralmente da Rossini, che dilata e riarticola le strutture, escogita soluzioni inattese e alterna momenti concitati, punteggiati da gesti nervosi e guizzi sorprendenti, e segmenti più statici, segnati da una raffinatissima distillazione delle diverse essenze vocali porte in purezza o mescidante con sapienza.
Il respiro mutevole di “Maometto II” non è facile da rendere nella performance, e difatti la bacchetta di Roberto Abbado, pur capace di passare con disinvoltura dalla pennellata vigorosa al tratteggio minuto, sembra a volte in difficoltà nel tenere insieme i diversi ingredienti di una ricetta tanto complessa. Marina Rebeka affronta con sicurezza e bravura la parte di Anna, creata per Isabella Colbran, nella quale ha modo di sfoggiare il perfetto controllo dell’emissione, la precisione nelle colorature e la notevole forza espressiva, doti che compensano ad usura il volume relativamente limitato. Apprezzabile è la prova vocale di Roberto Tagliavini, che però sembra non del tutto a proprio agio nei panni di Maometto: nella sua recitazione c’è l’ardore ma non la maestà, il piglio marziale è scomposto, l’irruenza è un po’ plateale e la fierezza assume talvolta risvolti grotteschi. Juan Francisco Gatell presta a Paolo Erisso un bel timbro chiaro ma offre un’interpretazione discontinua, non esente da sporadici passi falsi. Alisa Kolosova, benché lievemente indisposta, mostra considerevole padronanza tecnica nel ruolo di Calbo, che richiede ampi salti e lunghe permanenze nel registro grave. Buona la prova di Enrico Iviglia e Giorgio Trucco nei panni, rispettivamente, di Condulmiero e Selimo. Il coro, diretto da Roberto Gabbiani, chiamato a interventi numerosi, risponde con prontezza e diligenza.
Le scene di Pier Luigi Pizzi, che firma anche costumi e regia, provengono da un allestimento della Fenice di qualche anno fa (che però proponeva la versione veneziana dell’opera). L’idea centrale dell’invenzione visiva è l’edificio monumentale in rovina, che torna con declinazioni diverse in tutt’e tre le ambientazioni mostrate: un’idea decisamente suggestiva, che sottolinea sin da subito il senso di inevitabile disfatta serpeggiante nell’opera; tuttavia la sua costante riproposizione produce una certa monotonia e, soprattutto, pone in secondo piano la dialettica tra interno ed esterno, collettivo e individuale, pubblico e privato. I movimenti delle masse e dei protagonisti sono amministrati con sobrietà, ma alcuni momenti appaiono poco felici: così la prima entrata di Maometto, trasportato goffamente a braccia e poi a spalla dai suoi soldati (I.4), oppure l’arrivo di Anna nel sotterraneo, preceduto dalla breve ma un po’ imbarazzata immobilità dei due personaggi già presenti in scena (II.4). Queste lievi sbavature nulla tolgono alla bellezza dell’insieme e alla generale riuscita di uno spettacolo di alto livello, che consente di ascoltare o riascoltare con diletto ed emozione un’opera superba e rara.