È sempre una bella sorpresa accorgersi in maniera repentina e folgorante che la scena italiana non è davvero lassa e stremata come la vorrebbero i Bondi e i Tremonti del Sistema, che esistono universi e dimensioni in cui non si progetta la spettacolarizzazione comoda ed astratta del nulla subdolo e assoluto in cui annaspa, colpevolmente incerta, tanta parte di quella che una volta era la nostra rispettata intellighenzia, accorgersi, insomma, che c’è ancora qualche sentinella in grado di allarmarsi per il vuoto pneumatico prodotto in questa arena mediatica e circense da cui, noi trapezisti ancora sulla fune, proviamo a sottrarci all’inganno, soffrendo per ogni vertigine.
Così Carlo Cerciello, regista colto e coraggioso (oggi il coraggio è denuncia civile e dignità d’azione), uomo di teatro che potrebbe facilmente prestar genio ed invenzione al carrozzone volgare e inebetito di questo tristissimo Paese di Cuccagna, decide di aprire la stagione del prestigioso polimorfico teatro Elicantropo di Napoli con un efficace ed articolato congegno scenico di laboratorio, lì dove il termine “laboratorio” va interpretato nell’accezione più nobile e scientifica del senso, cioè quale spazio in cui si sperimentano rapporti e misurazioni di rapporti, in cui ritroviamo le condizioni necessarie alla ricerca libera e disinteressata delle arti; in tal senso, l’operazione offertaci dal Laboratorio Permanente del teatro Elicantropo è la testimonianza viva e verificabile di un’urgenza che non si è ancora estinta, quella, cioè, di far dell’arte un luogo di sopravvivenza del pensiero, di resistenza dello spirito critico e di costante salvaguardia della libertà dacché è l’arte proprio, in fin dei conti, l’unica speranza per trarci in salvo, ancora vivi, dalla crepa profonda in cui siamo stati sputati dalla Storia
Il Marat-Sade nella versione di sarcastico talk-show ideata da Carlo Cerciello prova a restituirci l’immagine traslata del buio baratro dal quale, sapiens-sapiens senza più voglia di saperi, abbiamo rinunciato perfino a distinguere tra i nostri morti, quelli caduti per il giusto ideale, e i morti altrui, quelli finiti combattendo infami guerre in terre devastate dagli interessi di una plutocrazia massona ed arrogante, ecco perché il manicomio, in cui era ambientata la pièce originaria di Peter Weiss, è luogo speculare alla lobotomizzata utenza dello studio di un talk-show generalista: d’altronde, se i veri pazzi sono quelli che hanno smarrito consapevolezza del tempo e della storia, cioè sono quelli che vivono in uno stato di allucinata decontestualizzazione esistenziale, quali creature sono oggi più decontestualizzate e prive di percezione prospettica e d’insieme di quelle che si agitano, impetuosamente, nei deprimenti prodotti, stile Vespa e Maria de Filippi?
Infine, urge sottolineare che la calibrata e lucida idea drammaturgica e registica di Carlo Cerciello trova perfetta realizzazione nei giovani e talentuosissimi attori del laboratorio, uno per tutti il suggestivo e chagalliano Antonio Agerola, evocativa ed inattesa incarnazione dell’anarchia distruttiva del Marchese De Sade.