Apiro (MC), teatro G. Mestica, “Maratona di New York” di Edoardo Erba
CORRENDO, CORRENDO
E' notte, è buio. Due uomini soli davanti a un cupo paesaggio presago di inquietudini e misteri. Uno accasciato a terra, l'altro in piedi. Iniziano a correre, si allenano per la maratona di New York. Steve è deciso, concentrato, motivato, sicuro di sé. Mario è meno rigido, anche nel passo: la sua corsa appare dinoccolata, ciondola la testa avanti e indietro “come uno scoppiato”. Steve lo sprona, ricordandogli l'impresa di Maratona nel 490 avanti Cristo, quando gli Ateniesi sconfiggono i Persiani e Filippide corre la distanza fra Maratona ed Atene per riportare la lieta novella, poi muore: “mi danno una cosa da fare, mi costa la vita: la faccio lo stesso”. I due cominciano a parlare del più e del meno, del passato e del presente, di loro stessi, di familiari, amici e colleghi. E intanto corrono.
Il cielo stellato è squarciato da lampi di immagini indistinte. “Perchè tutti i giorni bisogna dimostrare qualcosa? A cosa serve dimostrare tutti i giorni qualcosa?”. La conversazione si sposta sull'esistenza di Dio. Mario comincia a sentire la fatica, vuole essere libero di proseguire a correre ma anche libero di fermarsi. Una sosta momentanea, Mario finge di cadere per riposare un istante e rompere il ritmo. Ricominciano a correre, scambiandosi di posto, ora Mario è a destra e Steve a sinistra. Ma anche l'atteggiamento è cambiato, nei confronti della corsa, nei confronti della vita. Steve è in difficoltà, avverte fitte alla milza, Mario va come un treno, si sente fortissimo e accelera: “devi farla pagare alla vita, perchè la vita è un incubo”. E intanto corrono.
La conversazione cambia di tono, assume pennellate di onirico, le visioni sullo sfondo si fanno più nitide, immagini di infanzia in bianco e nero. L'evocare il passato assume i toni del mistero, una fidanzata che Mario ha fregato a Steve, sono fratelli o sono “come fratelli”? Si intuisce un incidente d'auto. Steve rimane indietro, illuminato da luce rossastra; Mario parla di lamiere accartocciate, lo chiama “Stefano”. E Stefano gli chiede “Ma io che notizia devo portare?”. Stefano esce di scena, Mario corre da solo. Fari si abbassano dall'alto e proiettano una luce accecante sul pubblico, quindi risalgono: Steve/Stefano ora corre da solo, vestito come Mario. E l'inquietudine della morte si accampa su quel buio, su quella corsa, che ormai chiaramente non conduce in nessun luogo fisico. E intanto corre.
Cristian Giammarini (Mario) e Giorgio Lupano (Steve/Stefano) corrono per tutta la durata della pièce, uno sforzo che meglio comunica la partitura verbale, le pieghe fantastiche annidate dietro l'apparente quotidianità. Il rito del correre diviene metafora della vita e di un passato drogato dai misteri della quotidianità, alcuni dimenticati ma non cancellati, che riaffiorano minando il presente. Alla fine chi è il sopravvissuto dei due? Quello che continua strenuamente a correre è davvero il superstite? E una vita non è forse fatta di più apporti personali, in un passarsi il testimone diuturno ed inevitabile, anzi necessario?
Molto pubblico, attento e partecipe. Alla fine lunghi applausi convinti. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile delle Marche, ha aperto la rassegna “Il giro d'Italia – viaggio tra le Storie di un paese che non c'è” in attesa di Ascanio Celestini.
Visto ad Apiro (MC), teatro G. Mestica, il 7 marzo 2009
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Cagnoni
di Vigevano
(PV)