Martina Franca, palazzo ducale, “Marcella” di Umberto Giordano e “Amica” di Pietro Mascagni
UN DITTICO RARO E INTIMO
Il Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, giunto alla sua 33esima edizione, ha il grande pregio di presentare ogni anno al pubblico titoli che per svariati motivi non sono più rappresentati da decenni o da secoli. Quest’anno, accanto all’Achille in Sciro di Domenico Sarro (opera che inaugurò il San Carlo nel 1737) e ad una quasi inedita versione francese della Salome di Strauss, sono state rappresentate in una sola serata Marcella di Umberto Giordano e Amica di Pietro Mascagni. Queste due brevi opere benchè quasi sconosciute e pur di autori diversi, rappresentano bene il periodo musicale caratterizzato dalla Giovane Scuola che spazia dal 1890 al 1910.
Marcella rientra in questo ultimo periodo, essendo stata rappresentata per la prima volta a Milano nel 1907, un’opera con poca storia, breve e fragile, come riporta il libretto, un “idillio in tre atti”. La trama è assai semplice, quasi banale; ripetitiva nelle opere del periodo: una grisette povera e ingenua che si innamora di un principe nella Parigi della Ville Lumiére e sacrifica la sua felicità per lasciare l’amato libero di tornare nella sua patria lontana. Non è un’opera di effetto immediato, non è complicata, non ha forme nuove e inconsuete, e tuttavia non si concede subito all’attenzione dello spettatore troppo abituato alle violenze vocali e strumentali, alla facile enfasi dell’espressione: il valore della musica di Marcella è nella sua delicata intimità. Lo stesso libretto è vacuo e poverissimo di azione, semplicissimo e ingenuo: i tre atti non sono che tre duetti d’amore cantati dagli stessi personaggi. In quest’opera Giordano non si discosta da una forma piuttosto convenzionale, anche se sembra voglia studiare l’espressione delicata e il gusto dei particolari, ed è solo questo che la rende apprezzabile: ogni particolare vi ha un pregio d’invenzione e di fattura.
Il primo atto si discosta decisamente dal resto dell’opera, risulta più vario e vivace degli altri: si canta, si balla al suono di un’orchestrina in scena, e la musica corre gaia e incalzante, che riporta veramente alla mente un café chantant della fine du siecle; decisamente meritevole lo sforzo del bravo regista Alessio Pizzech e dello scenografo Michele Ricciarini di creare, nel pur ristretto palcoscenico di Martina, un gustoso ristorantino parigino della belle epoque, anche se le danze risultavano un po’ troppo affettate. Il duetto che chiude l’atto ricorda però un po’ troppo quello del primo atto di Bohème, con la differenza che questo è più fresco e più spontaneo, mentre quello di Marcella non commuove e non coinvolge, nonostante lo sforzo dei due protagonisti, il tenore Danilo Formaggia e la veramente brava Serena Daolio, che si era già fatta notare nel canto in cui la grisette narra disperata a Giorgio di voler morire: canto dolce e doloroso che l’orchestra accompagna con felice effetto e che la protagonista ha saputo rendere con efficacia vocale e presenza scenica.
Il secondo atto, ambientato come il terzo in campagna, in una ambientazione molto spoglia, dove dovrebbero riempire solo le arie di amore e gioia dei due innamorati e degli amici, si apre con un duetto di Marcella e Clara, forse il più pregevole dell’opera, “Son tre mesi questa sera”, che è pieno di gioia, di tenerezza e di poesia, eseguito con maestria. Al duetto di Giorgio col pittore Vernier, si rinnova il duetto d’amore dei due protagonisti: bello, eseguito bene, pieno di frasi melodiche e di eloquenza appassionata. L’aria di Giorgio “O mia Marcella, abbandonarti?” commuove per l’intensità, meritato l’applauso al tenore. A quest’aria segue quella di Marcella nell’abbandono ebbro di felicità che chiude l’atto.
Come vuole la moda dell’epoca vi è un intermezzo strumentale di bellissima fattura, che precede il duetto finale tra Giorgio e Drasco e l’aria semi-inedita scritta da Giordano per il tenore Tito Schipa, e qui riproposta nella sua difficoltà belcantistica e nella sua squisita e raffinata fattura. Conclude l’opera l’ultimo breve atto, dopo un preludio per soli archi veramente suggestivo, il duetto dell’addio, emotivamente forte e commovente. Ma Marcella è tutta qua, un breve, fragile idillio, e la sua fragilità l’ha dimostrata nel tempo: da sessant’anni assente dai repertori e ben poco rappresentata nei trent’anni di “vita scenica”.
Bravi i protagonisti: il soprano Serena Daolio ha una bella presenza scenica e una voce intensa e vibrante, è complessivamente un’artista completa per autorevolezza vocale; il tenore Formaggia è dotato di sicurezza vocale in un timbro chiaro e carezzevole. Tra i numerosi comprimari si sono fatti notare il baritono Marcello Rosiello nel ruolo di Vernier e il soprano Natalizia Carone nel ruolo di Clelia.
Quanto è intimista e dolce Marcella, è altrettanto passionale e drammatica Amica di Pietro Mascagni. In quest’opera, andata in scena per la prima volta a Montecarlo nel 1905, il compositore livornese ricostruisce un ambientazione rusticana nel mondo dei montanari e dei pastori. Disperato e tragico è l’amore in questo “poeme dramatique”, per la prima volta rappresentato in Italia nell’edizione francese. Amica segue di poco tempo Iris e Mascagni cerca di ripetere all’inizio del I atto l’effetto dell’Inno del Sole, anche se il risultato è decisamente inferiore. La vicenda racconta di Amica, allevata da Maitre Camoine insieme al debole Giorgio e al ribelle Rinaldo, che sono fratelli. Il tutore, per poter sposare la serva Magdelone, vuole far unire in matrimonio Amica e Giorgio. Ma la protagonista ama il bel Rinaldo, scacciato di casa che torna per lei. Amica dunque fugge con lui e Giorgio corre all’inseguimento della coppia. I due fratelli scoprono così con dolore di essere rivali. Rinaldo vedendo in lei l’unica gioia del fratello la supplica di sacrificarsi e di dimenticarlo. Amica non può ascoltarlo: l’ama! Ma l’amore fraterno vince e Rinaldo fugge verso le montagne; la giovane, divenuta folle di passione lo rincorre esaltata cercando di salire sulle rocce scoscese, ma cade sotto gli occhi inorriditi dei due fratelli.
In quest’opera Mascagni ha cercato di fondere il tipico sinfonismo tedesco (Strauss) con il melodismo tipico della scuola italiana. I due atti sono divisi da un lungo e bellissimo intermezzo fortemente descrittivo in cui vengono riproposte le melodie fluttuanti e ricorrenti del dramma e che anticipa il clima selvaggio e duro della parte finale dell’opera. E’ un’opera improntata decisamente sull’enfasi dei sentimenti e alla potenza degli effetti.
In quest’opera il cast, tutto molto giovane, è riuscito a caratterizzare molto bene la tipologia dei personaggi. Amica era il soprano Anna Malavasi con voce robusta e sicura, che ha alimentato un temperamento altamente drammatico, anche se il ruolo molto arduo ha risentito dello sforzo vocale. Il tenore David Sotgiu ha interpretato il timido e fragile Giorgio discretamente, anche se la sua voce essenzialmente lirica risultava troppo leggera. Abbastanza bravo il baritono Pierluigi Dilengite nel ruolo di Rinaldo, credibile e passionale, anche se la voce non aveva molto smalto. Decisamente bravo e perfettamente nel ruolo il Maitre Camoine del baritono Marcello Rosiello e convincente anche il mezzo soprano Francesca De Giorgi nel ruolo di Magdelone.
Incalzante ed efficace la regia di Alessio Pizzech, che è riuscito in breve spazio a rendere vivo quel turbine di passione ed eventi che caratterizza l'opera. Benchè opere diverse, il maestro Manlio Benzi è riuscito a far risaltare gli intensi colori della raffinata partitura “giordaniana” e a esaltare gli elementi descrittivi e corali in quella di Mascagni. Lodevole impegno e bravura, alla guida di un’ottima Orchestra Internazionale d’Italia. Bravo anche il Coro Slovacco di Bratislava, molto professionale anche se poco teatrale.
Tutto esaurito nelle due serate di rappresentazione, con un pubblico decisamente internazionale e plaudente. Peccato per l’intenso ed inconsueto freddo.
Visto a Martina Franca, palazzo ducale, il 6 agosto 2007
Mirko Bertolini
Visto il
al
Verdi
di Martina Franca
(TA)