Firenze, anno 1500: Margarita arriva dalle campagne lombarde come serva in casa di un tipografo, Annibale, benestante ma non di sangue blu, indebitato e con il magazzino pieno di libri invenduti. Vorrebbe fare il “salto” e divenire tipografo di corte per imprimere grida e statuti e guadagnare bei soldini, possibile solo con la raccomandazione di Morello, cugino del granduca.
A costui piacciono gli appuntamenti al buio; così Annibale si impegna a cedergli la moglie Bianca, contessa di nascita, per una notte d'amore. Ma al visconte Morello, il “Gallo”, piace soprattutto “l'altera parte”, cioè “quella cosa tonda che la fa da cadrega col busetto” (il culo, insomma). Un chierico, in cambio di veder pubblicate le sue liriche, dovrà convincere la moglie Bianca, devota e pia, a prestarsi, nell'interesse della famiglia. Ma all'improvviso si ammala la mamma di Bianca e lei, accompagnata dal chierico, corre al capezzale. Rimasto con la serva, Annibale la obbliga a travestirsi da padrona e a concedersi al visconte che non la conosce né ha mai visto Bianca (“lo spirito de una serva ignorante è che l'è solo ben da dì de sì”).
Margarita, figlia di una strega, compie un sortilegio e scambia il suo corpo con quello del tipografo, il quale scoprirà piaceri che fino ad allora si era negato (l'omosessualità è un fatto culturale?). Nell'immancabile lieto fine il visconte Morello sposa Margarita (inconsapevolmente innamorato, però, di Annibale, che lo ricambia), l'equivoco con Bianca si chiarisce e Annibale diviene tipografo di corte.
Se all'inizio “Margarita e il Gallo” ricorda “La mandragola” rivisitata da un autore contemporaneo e per tutto il tempo rimane in bilico tra Aretino e Machiavelli, la commedia procede tra “Pigmalione” (la vestizione e l'istruzione della serva) e “Sogno di una notte di mezza estate” (lo scambio delle identità), tra “Cenerentola” (il risveglio al mattino) e un'opera buffa rossiniana (il quintetto finale, il volo del calabrone) con il servo che ha la meglio sul padrone, come in ogni favola che si rispetti. Il merito è va al testo di Edoardo Erba che, con abilità e leggerezza, risolve un intreccio piccante con un linguaggio al tempo stesso basso (la serva) e alto (i padroni), mischiando dialetto lombardo e italiano aulico con ascendenze raffinate toscane. Interessante è la ricerca linguistica e la commistione di umiltà, orgoglio, credenze popolari contadine ed usanze nobili.
Erba non è polemico né accusatore, non punta il dito contro l'ipocrisia familiare e sociale, né contro la religione e le pratiche “stregonesche” popolari. Il testo ha stile, è piacevole ed allegro, ben sostenuto, bilanciato tra finezze contemporanee e infiorettature colte. Il risultato è una commedia briosa ed elegante, con una trama che ben utilizza il soprannaturale e l'erotico, in un ardita, ma sempre misuratissima, girandola di scambi ed equivoci, dove il ritmo non cala mai e si assiste a un classico crescendo esilarante: si sorride nel primo atto, si ride apertamente nel secondo. Merito va anche della regia di Ugo Chiti che ben orchestra le movenze dei protagonisti nella bella scena di intarsi lignei di Daniele Spisa, un interno rinascimentale dichiaratamente teatrale con ante semoventi.
I costumi perfetti sono di Massimo Poli. La messa in scena funziona, infine, perchè funzionano gli attori. Protagonista è Margarita, deus ex machina (anche involontario) dell'azione, una serva naif e ciarliera, pitocca e tenera, ingenua e furba al tempo stesso, nata dall'unione occasionale ma sacrilega di un chierico che non la smette di benedire, finchè non finisce a letto con la madre di Margarita, presunta strega in fase di tirocinio, “stria” soprattutto per essere rispettata da tutti, essendo per questi poteri temuta (“il rispetto vien da la paura”) e per necessità di sopravvivenza (inganna l'Inquisizione scambiando il suo corpo con quello di una “gatta nera, ma con la coda bianca”). Il suo intercalare “Sì, sciura” e “Vacca morta” crea veri tormentoni.
Maria Amelia Monti, dopo prove teatrali meno convincenti, crea un personaggio simpatico e bizzarro, benevolmente diabolico nel suo scombinare tutto con un incantesimo. Indimenticabile la sua battuta più bella, quando cerca di spiegare ad Annibale che il sesso senza amore non è cosa da farsi e gli dice che “è come sedersi a tavola coi dolori di pancia, ti fa schifo tutto”. Giulia Weber è la moglie timorata e devota, vestita di nero, pudìca e casta. Franco Barbero è il chierico che si presta a fare il ruffiano per vedere pubblicate le sue liriche, poco ossequioso delle regole della Chiesa e aspramente critico, da buon fiorentino, dei Padani, “lombardi bifolchi”.
Encomio a Francesco Meoni, l'eccentrico visconte Morello, che danza con le parole e con i passi, ancheggia con sensuali e smaccatamente provocanti colpi delle pelvi. Meoni è divertente e bravissimo nel disegnare il Gallo scalpitante con un debole per “l'altera parte”, creando un numero raffinato, di alta classe, ampliando il parlato con sinuose e seducenti movenze di mani. A lui il pubblico tributa l'applauso più forte a scena aperta, con lui la platea ride sguaiatamente. Gianfelice Imparato da solo riempie la scena: ha mestiere e capacità nel tratteggiare un tipografo fiorentino con vago accento partenopeo; il suo Annibale, tra Tartufo e Pigmalione, è perfetto per levità di anima e inciuci di mestiere.
Pubblico divertito e plaudente, all'inizio particolarmente attento, forse attratto più dal plot che dalle finezze linguistiche del testo, vincitore del Premio Eti – gli Olimpici del teatro.