L'Opera di Roma recupera la splendida Maria Stuarda del San Carlo ma deve ricostruirne le scene andate perdute, le stesse che Sergio Tramonti aveva pensato per la versione in prosa di Schiller sempre affidata ad Andrea De Rosa. Le pareti sono prive di aperture, come all'interno di una scatola foderata di rosso scuro. Lo spazio è vuoto, al centro una bassa pedana e una sedia. Il coro viene rivelato da una feritoia che corre lungo le pareti. Nel secondo quadro sulla parte alta della scena sono proiettate ombre di alberi, il taglio orizzontale rivela un azzurro che evoca cielo e aria aperta, anche se sul palco la luce riesce a infilarsi solo con isolate lame di sole. Gli alberi sono esili tronchi, una idea del bosco e di “aperto” inarrivabile per Anna e Maria: gli alberi sono irraggiungibili e il taglio che consente di guardare “oltre” è troppo in alto per loro. Anna e Maria sono accompagnate da una giovinetta, la cui presenza è utile per la ricchezza della scena: nel bosco “giocano” in tre (molto bello il momento in cui sono stese a terra a pancia all'aria), nella prigione languono in tre. Crudo e crudele l'incontro delle due regine: soldati costringono Maria a inginocchiarsi e lei rivela una superbia che prima, nell'intimità, non aveva. In due sulla pedana, come su un ring: intorno il pubblico dei cortigiani.
Il buio inghiotte la scena.
Secondo atto: negli appartamenti di Elisabetta la condanna a morte è stata firmata. Non c'è più la “scatola” asfittica a chiudere la scena ma il nulla: è finito tutto per la Stuarda e il buio più totale circonda la scena. Chi entra pare arrivare da lontanissimo, rivelato gradualmente dalla perfette luci di Pasquale Mari. Da quel buio, ed è un momento particolarmente azzeccato, avanza la pedana con su la prigione di Maria Stuarda, spinta in avanti da uomini con bastoni come nocchieri di un destino tragico. Al momento della terribile esecuzione il telo di fondo cade a terra all'improvviso e svela la muratura del teatro e la scure su un ceppo; poi una fila orizzontale di riflettori scende verso il basso e, pian piano, spegnendosi. Come la vita della Stuarda. Come le candele che, poco prima, Maria aveva spento con la mano guantata di rosso sull'abito bianco immacolato, creato, come gli altri bei costumi rinascimentali, da Ursula Patzak.
Due soprani regine assolute.
Paolo Arrivabeni non ha brillato particolarmente nella direzione ma ha ben accompagnato i cantanti nella versione originale della partitura con tutti i da capo. Marina Rebeka è una Stuarda di grande bellezza, di altera eleganza e dalla voce luminosa e piena. Carmela Remigio modula la voce nel migliore modo possibile e la sua Elisabetta temperamentosa non è seconda a Maria. Paolo Fanale affronta le insidie della tessitura e il suo Leicester convince soprattutto nei momenti lirici e appassionati. Bene i comprimari: il Talbot di Carlo Cigni, il Cecil di Alessandro Luongo, la Anna di Valentina Varriale.