Milano, teatro alla Scala, “Maria Stuarda” di Gaetano Donizetti
NELLA GABBIA
Giuseppe Bardari trasse il libretto di Maria Stuarda dalla omonima tragedia di Schiller; Donizetti lo aveva musicato nel 1834 per Napoli ma la rappresentazione venne proibita in extremis perché il re non gradiva melodrammi tragici in serate di gala e questo aveva al centro l’uccisione di una regina. E così l’opera con alcune modifiche fu ripresa l’anno successivo alla Scala, ma l’ostinazione della Malibran a cantare il testo con l’intera sequela di epiteti ingiuriosi, ignorando gli emendamenti, portò alla cancellazione dell’opera dopo appena sei repliche. Dacia Maraini fa dire a Maria, riferendosi a Elisabetta, “se una di noi due fosse stata un uomo il nostro sarebbe stato un matrimonio perfetto”; Bardari fa rivolgere la scozzese all’inglese come “sorella”, prima del rabbioso e violentissimo: “Figlia impura di Bolena, parli tu di disonore? / Meretrice indegna e oscena, su te cada il mio rossore. / Profanato è il soglio inglese, vil bastarda, dal tuo pie'”.
Il palcoscenico è nudo, occupato da griglie metalliche, spogliato di tutto, solo gabbie. Di ferro. Ma anche immateriali. L'amore. La fede. Pedane da cui si sale e si scende, di gabbia in gabbia. La giusta cornice per i costumi, i più belli possibili, che risaltano e si stagliano sulla scena scarnificata per contrasto con l'essenzialità del contesto in cui i personaggi si muovono. Le stoffe sontuose nei toni del rosso e del giallo, broccati e velluti per Elisabetta (e gioielli da rimanere a bocca aperta). Stupefacenti, come già visti allo Sferisterio la stagione scorsa, qui però l'effetto è aumentato dal maggiore raccoglimento. È cambiato il secondo costume della regina inglese, non più un abito lungo ma un cappottone allacciato in alto che si apre su un completo pantalone di pelle nera, un po’ dark lady un po’ sadomaso. Per Maria una sobria veste grigia che esalta la dignità regale in linea con le convinzioni morali e religiose e abito rosso finale, come riportano le cronache dell’epoca. Guanti per tutti, segno distintivo di Pizzi.
Rispetto all’allestimento dello Sferisterio questo scaligero, riveduto e corretto, è più efficace. La “gabbia” scivola indietro, svela le moderne travature e le luci al neon dei locali di servizio. Completamente nuovo, reso possibile dal moderno palcoscenico scaligero, il momento più poetico, quegli alberi che sorgono dal basso a creare il bosco di Forteringa, un verde tenero e vibrante, sembra di sentire la frescura e il vento tra i rami. Efficacissimo.
All’inizio Maria riceve la comunione da Talbot, poi sfila un silenzioso corteo. Maria osserva l'azione dai margini del palco, silente, una tempesta nell'animo, la fede in Cristo, l'amore per Roberto, l'orgoglio per la natia Scozia, la rabbia contro Elisabetta dopo gli anni interminabili di carcere. Nel ruolo del titolo ha trionfato Mariella Devia, in questo personaggio che vocalmente le calza come un guanto, aderendo perfettamente alla sua voce ottima in tutti i registi, che non teme l’acuto, anzi lo cerca, lo corteggia, affrontando la partitura con tutte le note giuste, compreso quel sovracuto a fine d’atto, una nota che non è nella scrittura ma che è passata nella consuetudine come sfoggio di belcanto. In questo repertorio la Devia è sempre straordinaria. La sua Maria è estremamente dignitosa, nella vita e nella morte, appagata, calma e serafica, ma esplode nell'invettiva, dopo le provocazioni della gelosa Elisabetta, fino a togliersi un guanto, sbattendolo per terra: un gesto che dà immagine a uno sfogo sincero e liberatorio, il trionfo del coraggio sulla paura, della libertà sulla soggezione, della verità sulle bugie, una Stuarda che, cinematograficamente rimanda a quella volitiva di Katharine Hepburn più che a quella giovanissima di Vanessa Redgrave.
Altrettanto straordinaria è Anna Caterina Antonacci, una Elisabetta altamente drammatica, viso cereo e occhi bistrati di nero, tirannica e collerica, che dà in giro colpi di frustino e sembra avere certezza di se stessa solo nelle angherie. Elisabetta rappresenta un potere spietato ed è mossa da un tormentato desiderio di liberarsi della rivale in cui vede ciò che essa non è, una creatura dolce, indifesa ma fiera, circondata da persone che la amano. Con Elisabetta il Pizzi costumista raggiunge l'acmè, si diceva delle maniche, ma non solo: le perle, il colletto rigido prezioso, l’acconciatura di spilloni a fare un diadema, il gioco di stoffe cangianti sovrapposte, arduo da descrivere, solo da vedere. Meraviglie.
Il tenore Francesco Meli, indisposto, è stato sostituito da Dario Schmunk e, se la sua performance non è da ricordare, non ha meritato certo il “cane, cane” urlato da un palco dopo il primo duetto con Talbot. La voce non è potente né particolarmente estesa, anzi è piccola e a tratti velata, ma il timbro è giusto ed il cantante si sforza di eseguire con scrupolo.
Bene la affettuosa e fedele Anna Kennedy di Paola Gardina, per età dama di compagnia di Maria piuttosto che nutrice come previsto in libretto. Bravi il Talbot seducente di Carlo Cigni e l’odioso Cecil di Paolo Terranova.
Non ha convinto la direzione di Antonino Fogliani, soprattutto nell’overture, rallentamenti improvvisi ed improvvise accelerazioni, suono non bilanciato tra le varie sezioni, scomposto e non luminoso. Poi le cose migliorano nel prosieguo, soprattutto perché sono la Devia e la Antonacci ad imprimere i tempi giusti.
Buona la prestazione del coro preparato da Bruno Casoni, peraltro non di rilievo nell'economia di quest'opera ma impegnato nel contemporaneo Cyrano di Bergerac di Franco Alfano.
Pier Luigi Pizzi, autore di regia, scene e costumi, propone una adesione totale al libretto, riletto con rigorose notazioni storiche: Maria è vestita di rosso al momento della decapitazione, il boia le strappa il collo di velluto dall'abito di seta, come narrano le cronache dell'epoca. Un boia dal cranio lucido, fasciato in pantaloni di pelle nera che si muove sulle pedane come a una sfilata di moda e che, un istante prima che si chiuda il sipario, alza con forza la scure. Il resto è solo una sfilata di costumi, però splendidi, con presenze che aleggiano reggendo fiaccole, senza nulla del clima drammatico della musica nè dell’atmosfera del libretto.
Teatro pieno, pubblico plaudente, ovazioni alla Devia e alla Antonacci, qualche contestazione al direttore e al tenore anche alla fine.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 26 gennaio 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)