Lirica
MARINO FALIERO 

Anche il Donizetti Opera Festival passa allo streaming: “Marino Faliero” però è deludente

Marino Faliero
Marino Faliero © Gianfranco Rota

E' un'opera che esula dai soliti schemi del suo tempo, Marino Faliero di Donizetti. Intanto il protagonista è un basso, un vecchio doge veneziano: come sarà poi ne I due Foscari di Verdi, e come quello in conflitto tra pubblico e privato. Gli si affianca un baritono di notevole spessore psicologico, il fiero popolano Israele; il tenore (Fernando) non incide troppo nell'azione, beneficia di aulici ghirigori vocali come usava anni prima Rossini, ed esce di scena anzitempo soccombendo in duello. Il soprano (Elena, moglie del doge e sua amante) non ha aria di sortita al primo atto, dove canta solo un duetto; è assente nel secondo; e solo al terzo trova la sua bella pagina solistica, con tanto di cabaletta.

E' un'opera di notevole valore, tra le più rifinite del musicista bergamasco – in vista della prima parigina ci mise lo zampino Rossini – nondimeno resta un titolo abbastanza raro. Ci è stato riproposto nel bel Teatro Donizetti - riaperto dopo tre anni di restauri - venerdì scorso, quale titolo inaugurale del Donizetti Opera Festival di Bergamo - quest'anno più sintetico ed in assenza di pubblico - sia in diretta su RAI 5, sia in streaming gratuito sul suo sito. Per una sera solo però, che peccato.

Uno spettacolo alquanto brutto, quasi inammissibile

In verità, lo spettacolo ci è parso abbastanza deludente. L'accoppiata progettuale Ricci/Forte sfrutta la platea del rinnovato Teatro Donizetti erigendovi al centro un'immane ponteggio d'acciaio disegnato da Marco Rossi, un groviglio di scale e piani sospesi che isola e tiene lontana l'azione dall'Orchestra messa in rigida sicurezza. Cioè con i fiati isolati da pannelli, e schierata metà dietro e metà davanti, costringendo il direttore Riccardo Frizza a continue giravolte. Non parliamo poi del Coro del festival relegato dietro d'essa, in fondo al palcoscenico, lontanissimo dai cantanti.

Ma i guai non sono finiti. La regia di Stefano Ricci appare alquanto latitante, dal punto di vista drammaturgico, e finisce per essere tediosa, limitandosi a muovere senza sosta gli interpreti,  come criceti in gabbia, su e giù in fuga uno dall'altro. In compenso, l'attenzione viene costantemente distolta dall'interminabile compresenza di sette performers muti, addetti a contorcimenti acrobatici d'ogni genere pensati da Marta Bevilacqua, che la regia televisiva di Arnalda Canali esalta sin troppo. Inquietanti ma superflue figure, portate peraltro ad esibire alla fine ghigni orribili: ulteriore, stupido e sterile espediente pour épater le bourgeois. Quanto ai costumi di Gianluca Sbicca, possono piacere, o no. Dipende dal punto di vista: a noi paiono raffazzonati e pacchiani.

Francesca Dotto

Meglio assai la musica, per fortuna

Si salva il coté musicale, bene o male. Riccardo Frizza compie un'impresa al limite dell'impossibile, quella di concertare e dirigere in condizioni così disagevoli; e difatti pare avvertire, di tanto in tanto, certi minimi scollamenti tra interpreti, orchestra e coro. Però grazie al suo puntiglio, all'intelligenza musicale, ed all'indubbia maestria, l'operazione va comunque in porto; ed il senso ed il valore musicale dell'opera ci vengono restituiti per intero. Merita tutto il nostro plauso, quindi. L'edizione critica impiegata, per inciso - ma non avevamo gli spartiti in mano - ci pare mischi un po' la partitura autografa conservata a Napoli (da cui viene la scattante Sinfonia qui eseguita), la parigina (1835), la fiorentina (1836) e quella a stampa Ricordi (1836-37). Comunque, sia coro che orchestra del Festival si comportati al top.

Per contropartita, i cantanti sono avvantaggiati, sul video, da una ripresa fonica ben curata. Michele Pertusi, che ci conquistò nel Marin Faliero targato Parma 2002 (un exploit ripetuto a Venezia l'anno dopo), ribadisce un'interpretazione grandissima, di riferimento assoluto: un doge possente e statuario, scavato psicologicamente in profondità, che domina la scena con un accento incisivo e penetrante, ed una voce di brunito ed intenso colore, con una punta esaltante nell'elettrizzante “Bell'ardir di congiurati”

Bogdan Baciu


Francesca Dotto è un'Elena centratissima, ricamata in trasparenza, abilmente giocata su fiati elegantissimi, su legati raffinati, e sostenuta da un timbro serico ed avvolgente. Bogdan Baciu conferisce nobiltà, buon rilievo caratteriale, notevole spessore vocale al suo Israele, lavorando a fondo sul fraseggio e sull'accento; e gli si concede anche la bella aria del terzo atto, prima di salire al patibolo, omessa nella ripresa di Firenze 1836. 

Fernando tocca a Michele Angelini, tenore americano chiamato a sostituire Xavier Camarena bloccato causa Covid 19. Pare scontasse una leggera indisposizione, si dice; l'impressione è che comunque non sia all'altezza d'una funambolica figura pensata un tempo per l'inarrivabile Rubini, che con essa all'epoca fece faville. E difatti lo vediamo sfiancarsi e sbandare in un compito superiore alle sue forze, sin dell'aria doppia di sortita «Di mia patria», avanzando a fatica in un percorso ad ostacoli cosparso di infinite insidie. Nelle parti di contorno incontriamo il bravo Christian Federici, sinistro Steno, e Dave Monaco, altisonante Leoni; e poi Anaïs Mejías (Irene), Stefano Gentili (Beltrame), Giorgio Misseri (il gondoliere), Diego Savini (Pietro), Vassily Solodky (Strozzi) e Daniele Lettieri (Vincenzo).

Visto il 20-11-2020
al Donizetti di Bergamo (BG)