Pier Luigi Pizzi propone al Festival della Valle d'Itria una riuscita e avvincente lettura in chiave contemporanea del Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa che mette in evidenza le geometrie tutte settecentesche dell’opera.
Pier Luigi Pizzi propone una riuscita e avvincente lettura in chiave contemporanea del Matrimonio segreto di Domenico Cimarosa che mette in evidenza le geometrie tutte settecentesche dell’opera.
Un ingranaggio perfetto
Vienna, inverno 1791-1792: il celebre Cimarosa, esponente di punta dell’operismo napoletano, sta tornando in Italia dopo un lungo soggiorno in Russia e si ferma nella capitale imperiale. La corte ne approfitta per commissionargli un’opera buffa, Il matrimonio segreto, che debutta il 7 febbraio 1792 e viene più volte replicata. Il libretto fornito al maestro di Aversa, a firma di Giovanni Bertati, è un testo forse non perfetto ma che sulla scena funziona come un orologio svizzero. Cimarosa lo riveste di note scattanti e cristalline, intreccia le voci con magistrale sapienza, esalta la successione serrata delle attese e delle sorprese, tratteggia in punta di pennello i contorni della tenerezza, della ripicca e della gelosia. Nasce così uno dei capolavori buffi del tardo diciottesimo secolo.
Martina Franca, estate 2019: il Matrimonio segreto va in scena nell’ambito della XLV edizione del Festival della Valle d’Itria. Il pubblico segue con attenzione, si appassiona, sorride e – incredibile dictu – ride: insomma, si diverte davvero. Merito di Bertati e ancora più di Cimarosa, senza dubbio. Ma anche, in larga misura, di Pier Luigi Pizzi, che restituisce la creazione settecentesca alla sua dimensione di commedia, ancorché in musica.
L’azione si svolge in un interno altoborghese di oggi, un grande open space dal sobrio design, tutto giocato sul contrasto tra il giallo, il bianco e il nero. In questo spazio arioso ed elegante, i personaggi si muovono con naturalezza, assumono atteggiamenti immediatamente decodificabili, ammiccano ma non scadono nel caricaturale, indulgono alla sensualità ma senza volgarità, enfatizzano timori, rancori e stupori attraverso una cinesi efficace e una fisicità eloquente. E in più si dispongono nello spazio in modo non solo coerente con il decorso melodrammaturgico, ma tale da porre in rilievo i razionalissimi giochi di simmetria che innervano il meccanismo dell’azione e la partitura stessa.
La bravura dei cantanti-attori
A raggiungere un tale risultato contribuiscono in misura determinante gli interpreti, encomiabili tanto nel canto quanto nella recitazione. A partire da Marco Filippo Romano, che risulta abilissimo nella caratterizzazione di Don Geronimo, il pater familias grossolano ma bonario; in lui la vocalità, sempre perfettamente controllata anche nelle raffiche dei sillabati, si completa e si invera nella mimica facciale, nel guizzo della piroetta, nel balzo repentino. Il Paolino di Alasdair Kent, sebbene talvolta un po’ esile, è animato dallo slancio della giovinezza e dalla forza dell’amore. Vittorio Prato dona giustamente al Conte Robinson un carattere burbanzoso e insofferente per mezzo di pennellate sicure.
Maria Lura Iacobellis (Elisetta) e Benedetta Torre (Carolina) gareggiano in bravura, sicurezza di intonazione, bellezza di colore e precisione nei passi tecnicamente più impegnativi. Chiude eufonicamente il terzetto femminile Ana Victoria Pitts, a proprio agio nei panni dell’inquieta Fidalma.
Il Matrimonio è opera di pochi numeri solistici e di molti, deliziosi ensembles, che gli artisti appena elencati restituiscono con grazia e precisione. Il merito, in questo caso, va alla bacchetta del giovane Michele Spotti, capace di attraversare la partitura cimarosiana con lucidità e passione e di sottolinearne i dettagli preziosi senza però mai perdere di vista il senso dell’insieme. Sotto la sua guida l’orchestra del Petruzzelli di Bari suona con energia e levità, senza cedimenti né sbavature. La lunghezza e il calore degli applausi finali parlano da soli.