A due anni dall’allestimento di FaustIn and Out di Elfriede Jelinek, la coppia Malfitano&Arcuri torna a lavorare insieme in un progetto su un autore di lingua tedesca vivente, Manfred Karge, affrontandone un testo poco noto, ma probabilmente uno dei suoi capolavori.
Jacke wie Hose: giacca come pantaloni
Classe 1938, allievo di Bertolt Brecht, per anni stretto collaboratore di Heiner Müller, Karge è attore regista e drammaturgo tutt’ora attivo al Berliner Ensemble. Il monologo Jacke wie Hose (Giacca come pantaloni) è suddiviso in 26 brevi quadri e ispirato alla storia vera di una donna che nella Germania nazista si finge uomo per poter lavorare e sopravvivere.
La vita spezzata di Ella Gericke
In scena le molteplici vite di Ella Gericke, donna vissuta ai tempi della grande crisi del 1929, che rimasta vedova decide di indossare i panni del marito defunto per non perdere il suo lavoro di gruista. Con coraggio e senso pratico si sostituisce al marito, abbandona la sua identità, rinunciando alla sua femminilità: indossa la tuta da lavoro, taglia i capelli, impara a manovrare la gru, a bere birra, giacca e pantaloni diventano il suo abbigliamento.
Il doppio, il maschile e femminile, l’identità negata
La vita di Ella è segnata dalla sua “metamorfosi” da donna a uomo, dall’inevitabile rinuncia alla propria identità per la sopravvivenza. Centrale nello spettacolo è il tema del doppio, l’ambigua dialettica di maschile e femminile: l’identità negata è vissuta come una brutale costrizione, l’unica forma di resistenza alla violenza che regola i rapporti sociali. Non c’è indignazione o rabbia nelle parole della protagonista, ma quieta rassegnazione e amaro rimpianto. Il dramma di Karge è la storia di una lotta quotidiana per affermare la propria identità: 26 istantanee di vita, un caleidoscopio di sogni, ricordi, passioni, delusioni che si intrecciano con la storia della Germania, tra recessione, guerra e Terzo Reich.
Una lettura distante
Attrice generosa e intensa, Angela Malfitano dà prova di essere a suo agio nel monologo, si muove agilmente su una varietà di registri linguistici, ma non convince totalmente poiché sembra tenere a distanza il personaggio, non traducendone pienamente la necessità espressiva. Forse questa “distanza” è riconducibile a una scelta registica: gli scambi di energia tra attrice e personaggio non sono equilibrati e coerenti, la narrazione scenica asseconda ogni frammento drammatico, arricchendolo e personalizzandolo a volte in maniera eccessiva - troppi gli elementi in scena (immagini, didascalie, luci, elementi decorativi), così facendo si cade in un vortice frenetico di cambiamento continuo, che anziché agevolare l’interprete ne mina la presenza scenica. Arcuri propone una decostruzione interiore della forma del dramma, paradossale e tragica al tempo stesso.