Prosa
MAX GERICKE

Uno spettacolo recitato in maniera impeccabile

Uno spettacolo recitato in maniera impeccabile

Jacke wie Hose scritto dal commediografo,  regista e attore tedesco Manfred Karge nel 1982, ha avuto sin dal suo debutto (il 15 dicembre dello stesso anno, allo Schauspielhaus di Bochum, con l'attrice Lore Brunner) un successo rilevante.
La pièce racconta di Ella Gericke, moglie di Max, che prende il posto del marito defunto prematuramente,  mettendosi a fare la gruista, durante la terribile depressione della repubblica di Weimar.
Un monologo nel quale Ella/Max, ormai incanutita e alcolista, che vive di pensione in un monolocale della Germania dell'est degli anni 80, fa considerazioni sulla propria vita e sui sacrifici fatti per mantenere una identità di uomo in una Germania divenuta ormai piccola (non va oltre Brandeburgo) con, alle spalle, tre società diverse quella di Weimar, quella nazista e quella sovietica del dopoguerra.
Si capisce il perchè del fascino che questo testo esercita ovunque: al di là delle problematiche  legate al cambio di identità (e di sesso) di Ella, personaggio per il quale si è rifatto a un vero fatto di cronaca (che ispirò a suo tempo anche Brecht nel racconto breve  Der Arbeitsplatz) Karge impiega il suo personaggio  come metafora di qualcosa di più universale la continua negazione del corpo sessuato femminile (la fascia che Ella deve indossare per comprimersi i seni,  il rigonfio da mettere nelle mutande a simulare l'organo maschile  e, durante una retata nazista, preso per le palle una guardia rimase meravigliata di non aver preso niente) che solo tramite l'immaginario maschile trova il modo di diventare soggetto interagente in una società fatta a misura di maschio.
Ella è una outsider non perchè ha dovuto diventare altro da sé ma perchè ha dovuto cancellare se stessa adeguandosi a una nomenclatura maschile come ricorda il titolo originale, Jacke wie Hose, un'espressione idiomatica  che significa sei di un tipo e una mezza dozzina dell'altro.
Con il titolo italiano di Max Gericke (in inglese è Man to Man mentre il francese vede Max Gericke ou du pareil au même) questo testo interessante torna sulle scene romane diretto ed interpretato da Sabrina Venezia, che ne cura anche la traduzione, in una versione che aveva già presentato nel 2009 al Teatro Vascello.
Per la messinscena Venezia sceglie una strada personale, e decide di non allestire il monologo come il resoconto lucido, per quanto disperato, di una donna negata nella sua femminilità, nel quale l'istanza personale diventa metafora di una condizione generale come di solito si è soliti leggere il testo.
Venezia affronta il monologo da un punto di vista interiore mostrandoci non già la storia Ella che diventa Max quanto piuttosto le lacerazioni interne  i conflitti e le contraddizioni di un personaggio che subisce il  lento dissolvimento dell'identità femminile. Se in altri allestimenti ci si è sentiti autorizzati a leggere in Ella una sorta di bisessualismo inespresso, cioè un desiderio di essere uomo non per motivi contingenti ma come unica possibilità di essere in un mondo di uomini Sabrina Venezia compie il percorso opposto. E' proprio grazie all'essere e rimanere donna anche (quello del personaggio ma anche quello dell'interprete) nei panni di un uomo  che Ella può compiere e sopravvivere a una trasformazione che altrimenti l'avrebbe vista soccombere (la donna da cui ci è ispirati riuscì a farla franca per 13 mesi). Malgrado l'impossibilità di esprimere la propria identità sessuale Max sa imitare un uomo così bene solo perché, in quanto donna, ne conosce i limiti. E' proprio quell'eccesso irriducibile di personalità e di identità femminile che non può esprimere a causa della imitazione del maschile che le pesa al punto tale da doversi dimenticare di se stessa tramite l'alcool.
Insomma il fulcro della pièce non sta negli sforzi che una donna (=essere inferiore) deve fare per sembrare un uomo (=essere superiore), ma esattamente il contrario, lo sforzo di  una donna (=essere che può far tutto) che deve esistere negli angusti limiti del maschile.
Sabrina Venezia intraprende una strada performativa aspra e faticosa che percorre in maniera impeccabile riuscendo a costruire il suo personaggio maschile con il linguaggio del corpo, l'espressione del viso, la modulazione della voce, un cambio di abiti (che sono poco più che stracci) attraverso cui evoca periodi storici diversi, contingenze diverse la Germania separata e rimpicciolita degli anni 80 o quella unica tronfia e geograficamente estesa de terzo Reich. Con la sola forza del proprio corpo di donna Venezia restituisce ogni gesto, ogni vibrazione esistenziale di Ella e di Max  con una bravura irraggiungibile.
La stanza in cui vive non ha più nemmeno quel decoro piccolo borghese della classe operaia post comunista con cui è di solito rappresentata la stanza di Max a teatro ma è caratterizzata da disordine e sporcizia segni del degrado di una condizione umana svilita, sminuita, domata. In questo Sabrina ha avuto una intuizione che dà alla su versione del monologo un qualcosa di sostanzialmente diverso e unico dalle rappresentazioni passate.Un monologo non recitato ma vissuto fisicamente in una scelta drammaturgica che a volte vede la regia piegata a un mero ruolo didascalico, di illustrazione visiva di quanto Max va raccontando o facendo, un rischio inevitabile per mantenere identificazione tra messinscena e condizione esistenziale del personaggio che rischia di soffocare il lavoro dell'attrice invece di dargli valore. Una scelta coerente con quella drammaturgica di mettere in scena non la storia di una persona ma l'ossessione con cui quella stroia ci viene raccontata senza farci sconti perché il delirio interiore è anche quello del mondo che circonda Max nel quale suo malgrado è costretta a vivere.

Visto il 27-03-2011
al TeatroInScatola di Roma (RM)