La nona edizione di VIE Festival 2015 ha ospitato la celebre e immortale creazione della coreografa francese Maguy Marin, May B.
Questo spettacolo è uno dei rari lavori che possono definirsi eterni, infiniti, classici poiché a distanza di 34 anni hanno ancora qualcosa da dire, da raccontare, su cui interrogarsi.
Rappresenta un punto di riferimento nel panorama della danza contemporanea, avendo plasmato uno stile e inaugurato un linguaggio originale: ha impresso un segno indelebile nel teatro del Novecento.
Lo spettacolo, creato da Maguy Marin nel 1981 con la sua storica formazione, è un pezzo unico, fuori dal tempo poiché attraversa la contemporaneità e delinea nuove identità sempre attuali.
Con questo lavoro Maguy Marin affermò la sua cifra stilistica e coreografica sulla scena internazionale.
Il suo debutto, ad Angers nel 1981, suscitò scandalo, indignazione, proteste e turbamenti: una coreografia troppo vera, troppo reale, per certi versi troppo cruda.
È un manifesto di spudorata anti-bellezza che non può lasciare indifferenti, che ha colpito nel bene e nel male, nel corso degli anni, folle di spettatori, ottenendo più di 700 repliche in diversi continenti.
Oggi le reazioni sono diametralmente opposte: il pubblico aderisce con entusiasmo e commozione - May B è una pièce ormai considerata classica, irrinunciabile.
La Marin, considerata una delle capofila "storiche" del teatro-danza francese, ha uno stile che molti critici e studiosi considerano il corrispettivo francese del Tanztheater tedesco, sviluppato principalmente dalla coreografa Pina Bausch, che nella creazione artistica coniuga e incorpora tra loro elementi coreografici con elementi teatrali, richiedendo ai danzatori anche delle capacità espressive prettamente attoriali.
May B è una performance ispirata al mondo di Samuel Beckett, in cui la Marin pone in contraddizione il movimento e l’atmosfera teatrale con l’estetica di una performance di danza, riuscendo così a tradurre alcuni dei nostri gesti più intimi, nascosti e ignorati: scopre e porta alla luce quei piccoli e grandi gesti che compongono molte vite insignificanti, in cui l’attesa crea un vuoto, uno spazio silenzioso che si riempie di esitazione - quando i personaggi di Beckett non aspirano ad altro che all’immobilità non riescono a non muoversi, poco o molto ma si muovono. In questo lavoro essenzialmente teatrale l’obbiettivo è cercare il punto di incontro tra il movimento applicato al teatro e il linguaggio coreografico della danza.
Lavoro ironico e tragico, dall’atmosfera apocalittica, May B mostra la desolazione della condizione di una umanità ormai prossima alla deriva attraverso i versi e la gestualità dei dieci protagonisti, figure molto simili a larve umane, che si agitano e si muovono nello spazio, prendono vita, si animano e si spengono, in un alternarsi ritmico come il respiro. Dieci personaggi con il volto coperto da uno spesso strato di gesso bianco traducono, in una sorta di parata, situazioni grottesche, violente e angoscianti, momenti di vita quotidiana e di imbarazzante intimità. Un’umanità scossa da pulsioni sessuali primordiali, ora tenera e comica, alienata e assurda, crudele e confusa, pronta a tradurre in gesti il linguaggio musicalmente connotato di Beckett.
Il silenzio si alterna a momenti musicali, da Schubert a Gavin Bryars e ad alcune parole, poche, sussurrate: un accenno da «Finale di partita» di Beckett, il motto usato da Hamm quando si appresta ad affrontare in solitudine il «vecchio finale di partita persa, finito di perdere».
May B, infatti, include citazioni di Aspettando Godot, Finale di partita, Va e vieni, Tutti quelli che cadono e frammenti di testi radiofonici di Beckett. Nella scrittura del drammaturgo irlandese si percepisce con estrema intensità il lavoro di corpi autentici: grassi, magri, bassi, alti, giovani, anziani.
La forza, la fisicità del suo messaggio permette alla danza di evocare quel mix riconoscibile di humour e tristezza che è la vita, l’esistenza umana.
I dieci performer sono alquanto lontani dai modelli di perfezione ai quali la tradizione ci ha abituato, sono avvolti in stracci, costretti in copricapi poco pratici, gonne ingombranti che sembrano ostacolare il fluire dinamico dei movimenti; potrebbero non essere danzatori, ma si riscoprono tali attraverso una gestualità estremamente semplice e primitiva: le loro azioni possono considerarsi una sorta di ricerca di una propria autonomia di linguaggio, la formalità del gesto non è data, ma costruita attraverso un attento “ascolto” e una sperimentazione della loro fisicità e dei loro limiti.
In May B. prende vita e anima un’umanità impacciata e ingenua che si agita a suon di marce militari e richiami all’ordine (si pensi al fischietto iniziale) e attraverso la danza “si sente corpo, carne, vita”.
Il riferimento a Beckett e ad alcune delle sue opere si configura dunque non come mera interpretazione della partitura coreografica, ma come diretta conseguenza di un’analisi, prima danzata, della condizione dell’individuo: poter danzare, per poter essere - “Dance, dance otherwise we are lost” diceva Pina Bausch; la danza deve sottrarsi e poi costruirsi di nuovo, affinché il corpo tutto possa, finalmente, esprimersi. Maguy Marin ha affrontato la complessità della condizione umana, le sue contraddizioni e peculiarità, dando vita in modo intelligente a personaggi nei quali possiamo rispecchiarci, riconoscerci, sottolineando l'anima grottesca intrinsecamente legata all'essenza del genere umano. Il risultato è potente, ironico, ma anche feroce e tragicamente reale.
May B. non è finzione, non è una metafora patinata, è dare voce e corpo al paradosso della vita, davanti a cui non possiamo fare altro che divertirci e ridere dei nostri patetici, piccoli rituali, fino al punto di piangere…