Per un interessante processo di identificazione collettiva del soggetto con l'immaginario ancestrale, delle due tragedie più note incentrate sulla figura di Medea (quella di Euripide e quella di Seneca), il carattere che oggi viene universalmente associato al personaggio è quello dato da Seneca (perfino entrando nel linguaggio corrente e facendone sostantivo!), piuttosto che quello descritto da Euripide, che invece delle due è l'opera più conosciuta. Se la Medea di Euripide infatti disegnava l'intreccio di vari ed esemplari sentimenti universali, quella di Seneca ferma il suo occhio soltanto su pochi, pochissimi aspetti, che tuttavia sono quelli senza dubbio più forti e carichi di impatto emotivo: l'odio, la passione ed il compimento di nefandezze che non lasciano molto spazio al tratteggio del personaggio; ed allo stoico sguardo di Seneca si può far risalire perfino lo stesso elemento femminino come relegato ad oscuro oggetto di trasmissione del male, attraverso i colpi della magia e della follia.
In occasione del cinquantunesimo ciclo di spettacoli classici dell'INDA è stato dunque proposto l'allestimento della Medea di Seneca per la regia di Paolo Magelli. Posto il background concettuale, e dato lo spazio di una scena (il Teatro Greco di Siracusa) che per magnificenza naturale e costruttiva può paragonarsi soltanto ad Epidauro, ivi compresa una naturale skené di cipressi che trasmette un raro senso di autentico, diciamo subito che avendo ancora negli occhi un'ambientazione così preziosa, e nonostante una presentazione che arriva a scomodare Christa Wolf, Thomas Mann e D'Annunzio, il risultato lascia troppe domande irrisolte. Ogni soluzione escogitata o faticosamente ricercata, a partire dall'ambientazione che più che rappresentare l'invocato tout-de-même destinato ad unire spazio, tempo e caratteri, sembra conficcarsi molto lontano dalla Colchide, allo scorrere di guanti lunghi, lustrini e paillettes che ornano quello che dovrebbe essere il coro di dignitari di Corinto, e che non solo diventa mitteleuropeo ed anni '20, ma si concede ogni ambientazione coeva possibile dai costumi ai movimenti, fino a ballare il mambo, ed a farci chiedere quando sarebbero passati al charleston (o forse c'era anche quello? Potremmo averlo rimosso).
L'azione di regia non restituisce un'idea chiara e unica della lettura, su cui il travaso temporale appare mera opzione estetica: la scelta di ambientare il lavoro nella Mitteleuropa spoglia il testo della sua sacralità storica per sostituirla con qualcosa di indefinito; né giova a delucidare le intenzioni il grande elemento scenico che occupa costantemente il centro dell'azione, una sorta di soffietto estensibile ripiegabile a fisarmonica come quello installato nelle fotocamere della metà dell'800, oppure una recitazione che adotta registri spesso assai diversi fra loro, soprattutto nello stridente contrasto fra la monotona ossessività della Medea di Valentina Banci e l'eleganza accademica della nutrice di Francesca Benedetti (ma anche di Creonte), con un Giasone (Filippo Dini) ripiegato su un'afasia espressiva che fa quasi sparire il personaggio. Ed il finale, privato dell'emotività legata all'uccisione dei figli -in quanto riprodotta con una sorta di tocco magico della madre- risulta allungato a dismisura, con lunghe e inconcludenti passeggiate della Medea assassina.