Lirica
MEDEA

Torino, teatro Regio, “Medea”…

Torino, teatro Regio, “Medea”…
Torino, teatro Regio, “Medea” di Luigi Cherubini IO? MEDEA. Brahms definisce la “Médée” “la vetta suprema della musica drammatica”. In questo capolavoro Luigi Cherubini prosegue nello stile severo e nella rinuncia alla melodiosa aria all’italiana a favore di un declamato-arioso più appropriato alla tragicità del soggetto sulla linea di Gluck e, al tempo stesso, anticipa Beethoven per l’accentuato sinfonismo (che ha la sua vetta nell’apertura del terz’atto) e la visione unitaria del dramma. Dal debutto nel 1797 l’opera non era mai stata rappresentata a Torino (come la mozartiana Clemenza di Tito dello scorso maggio) fino alla scelta felice di aprire l’attuale stagione del Regio, il teatro più vivace ed in salute d’Italia. Però non l’edizione originale di Hoffmann, in francese coi parlati come nel Fidelio di Beethoven, ma quella tardoverista di Carlo Zangarini del 1909 (per capirci l’edizione “Callas”) da cui non emerge lo splendore della partitura espressa in numeri chiusi e separati uniti dalle sinfonie. Il regista ha dichiarato che i recitativi parlati “rompono la continuità musicale della vicenda”, invece a noi sembra accentuino la forza drammatica della tragedia. Hugo De Ana firma regia, scene e costumi. La scena è occupata da una nave con le vele abbassate, incagliata in una spiaggia che pare superficie lunare, di terra arida e marrone, buche e avvallamenti, prima di un mare filamentoso che riflette un cielo elettrico. La nave domina i tre atti ed è, per Medea, il passato ed il presente: è l’ingombro di un passato incancellabile e pesantissimo ed è, al tempo stesso, il vagare di Medea, raminga ed esule, di luogo in luogo, scacciata, abusata. Ecco allora le valigie consunte e ricoperte di etichette appiccicate a testimoniare i tanti, troppi viaggi. Ecco il vagheggiare la natìa Colchide e le accoglienti montagne del Caucaso. Ecco il tentativo di abuso da parte dei soldati di Creonte. Verso la platea di protende un tavolato-pontile di assi di legno recuperate da naufragi e tempeste di mare. Stona invece la tavolata del primo atto con le sedie impagliate e sopra la tovaglia stoviglie e pietanze: troppo realismo in uno spettacolo che vive di immagini fortissime. Come Medea in piedi sulla nave, rifugio e salvezza, lei cerea e nerovestita sullo sfondo del mare in burrasca, sferzata da pioggia e vento (mi ha ricordato Meryl Streep ne “La donna del tenente francese”). I costumi collocano la vicenda nel Ventennio: all’inizio una spiaggia alla moda, toni chiari e vaporosi, poi, con l’arrivo di Medea, compaiono i neri che divengono la tinta dominante. Il coro richiama i tanti immigrati-emigranti, esuli dalla propria patria e nell’anima. L’esordio torinese dell’opera verrà ricordato per la prova superba di Anna Caterina Antonacci nel ruolo del titolo: temperamento drammatico, grandissima partecipazione emotiva e interpretazione intensa che unisce la nitidezza neoclassica e la forza romantica (la leggenda riporta che la prima protagonista fosse impazzita dopo averlo cantato molte volte). La sua Medea, più che straniera e maga, è una donna tormentata con il volto scavato dal dolore insopportabile che sconfinerà nel gesto più terribile concepibile. Entra in scena velata; veste lo stesso abito per i tre atti, un nero luttuoso. La voce è splendida per colore e maturità, i centri spessissimi, i gravi sontuosi e luminosi, gli acuti affrontati con intelligenza e ottimizzazione del mezzo a disposizione. Insomma, quell’”Io? Medea.” suonava così tragicamente appropriato da sotto il velo nero. Una Medea di tale forza necessariamente lascia in ombra gli altri cantanti, seppure tutti adeguati per vocalità e corretti nell’esecuzione. Giuseppe Filianoti è un Giasone distaccato e beffardo, odioso quando affronta con indifferenza l’amore e la sofferenza di Medea spezzando bastoncini di legno; la voce è luminosa e sicura. Cinzia Forte è Glauce biancovestita, come il nome suggerisce, innocente, ritrosa e timida. Sara Mingardo, abbigliata da dama di compagnia, è Neris dalla bella voce contraltile, che strappa l’applauso al pubblico nella lunga aria del secondo atto che riprende quella nel prologo di Euripide. Giovanni Battista Parodi è un Creonte fisicamente imponente e dalla voce di un bel colore profondo. Con loro Diego Matamoros (un capo delle guardie del re), Erika Grimaldi e Luisa Francesconi (prima e seconda ancella). Evelido Pidò sottolinea le caratteristiche della partitura che la ergono a capolavoro, la stilizzazione quasi marmorea settecentesca e la sontuosa luttuosità romantica ottocentesca. Pidò disegna, anzi, cesella un grande arco drammatico che si tende sempre di più fino al finale, raggiungendo l’apice nella sinfonia del terz’atto. L’orchestra, a ranghi ridotti, risponde ottimamente sia nel complesso che nei solisti, soprattutto l’oboe e il fagotto nell’aria di Neris e nel lungo assolo di Medea nel terz’atto. E il legame profondo di Pidò con la protagonista, che ha tenuto a battesimo in Francia al debutto e successivamente, si sente, vibrante e drammaticamente convincente. Lunghi applausi per uno spettacolo che colpisce il cuore e l’anima. Visto a Torino, teatro Regio, il 15 ottobre 2008 FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al Regio di Torino (TO)