Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, una tra le più interessanti compagnie nel panorama del teatro di ricerca italiano, si distingue per l'approccio alla parola teatrale, intesa come come suono, come significante, piegando l'attore alla restituzione della teatralità insita nella parola stessa e comunicando le intenzioni dell'autore del testo attraverso la sua sonorità.
Un teatro che chiede allo spettatore una forte presenza, anche ermeneutica, che travalica l'eliminazione dello spazio tra pubblico e attori, tra platea e palcoscenico, tra scena e costumi (tutti elementi presenti nei lavori della compagnia) dedicando la propria irriducibile vocazione teatrale alla realizzazione musicale del testo alla quale si accompagna una partitura gestuale e scenica altrettanto complessa.
Marcido debutta nel 1986 proprio con lo studio da Le serve di Genet che, allora, aveva il titolo di Studio per le Serve, una danza di guerra riproposto, quasi 25 anni dopo, con il titolo di Memoria per lo studio delle serve. Il nuovo titolo di uno spettacolo rimasto praticamente invariato da allora, e che giunge a Roma per la prima volta, viene spiegato dai suoi interpreti, Maria Luisa Abate e il giovane Paolo Oricco, i quali, dopo lo spettacolo, si intrattengono con il pubblico. Maria Luisa sottolinea come sia importante la memoria anche a teatro, memoria per gli spettacoli passati, per ribadire la necessità della costituzione di un repertorio (diritto fondamentale di ogni compagnia, come ribadisce l'attrice Iaia Forte, presente tra il pubblico) cioè di un gruppo di spettacoli da continuare a portare in scena, di modo che il teatro non sia solo questione di consumo (di spettacoli nuovi subito dimenticati e mai più ripresi), ma, piuttosto, costituisca un'occasione di partecipazione e riflessione dove il testo diventa un "memento" , che riflettendo un modesto raggio della luce "bastarda" proprio della genesi del fenomeno teatrale, sappia perciò indicare per questo stesso vecchio prezioso fenomeno, un futuro di necessità come scrive Marco Isidori (regista dello spettacolo e mente dei Marcido) nelle note che accompagnano lo spettacolo.
In questa ripresa del primo allestimento della compagnia sorprende la presenza di tutti gli elementi che caratterizzeranno gli spettacoli successivi. La capacità di isolare alcuni elementi del testo originale e restituirli, scarnificati da ogni struttura narrativa, nella loro immediatezza affabulatoria, in un testo detto grazie a una voce recitante, vera e propria partitura musicale. Così proferito il testo esprime il suo significato già nella sua sonorità, prima ancora che nel contenuto semantico di quanto quelle parole dicono. L'ossessione delle due serve del testo originale e della loro cerimonia nell'impersonare a turno, tutte le sere, la padrona tanto amata/odiata, costrette , nell'impossibilità di rendere concreto quell'omicidio vissuto ogni volta a livello simbolico, è restituita nella funambolica verve recitativa di Maria Luisa Abate che sottolinea ogni ogni singola parola con un atteggiamento coreografico del corpo, tra postura delle braccia e del busto ed espressioni del viso, giocando con una nuda lampadina che le pende sula testa (unico arredo scenico, oltre alla pedana e al fondale, un dipinto che rappresenta un fuoco) ora coprendola ora scoprendola con le mani, ottenendeo suggestive trasparenze ed effetti luminosi.
Lavorando a stretto contatto fisico con Paolo Oricco (con il quale condivide una pedana di poco meno di due metri di diametro) Maria Luisa Abate interpreta ora Solange ora Claire, declamando alcune parti del testo, mentre Paolo si presenta all'inizio come presenza scenica silente, per poi amplificare alcune battute del testo fino ad assumere pienamente il ruolo di Claire, tornando infine ad essere esecutore scenografico del costume di Solange, dal quale estrae dei fili di perle che le escono dalle viscere (o dal diaframma?), inchiodandola alla pedana, per cingerle infine il capo con una corona da martire fatta di mollette per il bucato.
Non a tutti convince il lavoro dei Marcido, l'unico nostro dubbio riguarda la presenza un poco sacrificata del secondo attore che, nell'economia dello spettacolo, rischia di apparire più come un'appendice della prima attrice che come una presenza autonoma. Ma è un lusso che lo spettacolo può permettersi perché, nonostante il suo approccio testuale, il teatro dei Marcido è carico di una potenza della messa in scena che vede la recitazione indissolubilmente legata allo messa in scena, al movimento degli attori, al loro relazionarsi con lo spazio scenico che comprende, sempre, anche gli spettatori. Non un teatro di attori ma un teatro della parola detta incarnata da una complessa macchina scenica della quale l'attore è solo una delle componenti. Non a caso è stato scelto per il debutto romano uno spazio piccolo, per numero di posti, come il MetaTeatro. Il discorso che lo spettacolo allestisce con il suo pubblico non può funzionare con i grandi numeri del teatro borghese (quello che, con un'indovinatissima metafora, Maria Luisa ha definito il teatro che non si preoccupa degli spettatori, visti come tanti portafogli seduti in poltrona) ma necessita di un numero ristretto e attivamente partecipe di spettatori che alla fine dello spettacolo partecipano pressoché tutti all'incontro con gli attori. Per cui anche questa parte di scambio e di feedback pur non facendo parte del testo fa parte dell'azione teatrale, di un fare teatro che coinvolge, ciascuno col suo ruolo, attori e spettatori.
Tra i tanti pregi di uno spettacolo fondamentale come Memoria dello studio de le Serve c'è anche quello di ricordare che fare teatro è qualcosa di squisitamente politico di partecipazione alla vita della città, e che questo modo di fare teatro non è solo possibile ma anche e soprattutto necessario.
Roma, Atleier Meta-teatro dal 12 al 17 maggio 2009.
Visto il
al
Atelier Meta-Teatro
di Roma
(RM)