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MEMORIE DEL SOTTOSUOLO - A PROPOSITO DELLA NEVE FRADICIA

Sgrosso nel sottosuolo

Sgrosso nel sottosuolo

Fedele al principio che i regali migliori sono quelli fatti da se, Marco Sgrosso per il suo 50° compleanno ha presentato “Memorie del sottosuolo – a proposito della neve fradicia” di Fedor Dostoevskij  al CRT di Milano, uno spettacolo nel quale si è  prestato non solo come interprete del ruolo del “paradossista”, ma anche come regista, drammaturgo e coordinatore del progetto.


Non si sa se l’interesse del fondatore de Le belle bandiere per il classico della letteratura russa sia di carattere puramente personale oppure di natura  etno-antropologica, visto che la cittadina dove risiede la compagnia, caso vuole, si chiama Russi. In ogni caso, è già la terza volta che la sua attenzione cade sui testi di Dostoevskij, due delle quali proprio su “Memorie…”.  La realizzazione del 2004, pensata come una lettura-concerto, prevedeva la presenza di un musicista (Andrea Agostini) che, improvvisando al pianoforte, seguiva le tormentate elucubrazioni del protagonista . Secondo l’opuscolo introduttivo della nuova produzione, quella messinscena ha avuto e continua ad avere un discreto successo. Otto anni dopo,  sicuro di poter dare  allo spettacolo ”una forma teatralmente più compiuta”, Sgrosso riprende in mano il testo. Tuttavia, o 65 minuti sono pochi per  permettere allo spettatore di entrare nella psiche “dell’uomo del sottosuolo” che Dostoevskij riteneva  “la persona più importante del mondo russo”  o il momento non era del tutto “maturo” , ma in entrambi i casi il discorso della completezza delle forme  pare un po’ azzardato.

Come tutte le opere di Dostoevskij, anche “Memorie del sottosuolo “ discerne sui motivi dell’esistenza dell’uomo. Dal mondo esterno, colmo di cataclismi naturali e tecnologici, il testo si spinge verso quell’interiore per indagare sulle catastrofi del profondo dell’essere umano. E’ una specie di teatro anatomico in cui il protagonista esegue un intervento dimostrativo senza l’anestesia sulla propria anima. Il suo ripugnante e, nello stesso tempo, affascinante monologo è una confessione, ma, nello stesso tempo, una base teorica con la quale egli cerca di sostenere  la propria viltà. Ha un irrefrenabile bisogno di sfogarsi e con il sangue e il dolore, elargendo il suo lessico pungente e pieno di retorica, spreme, strizza,  sputa  fuori il suo orrore esistenziale davanti al mondo esterno, ma soprattutto innanzi al proprio “sottosuolo”.  Il suo è un caso clinico, quindi è pieno di paradossi: vuole “essere buono” e non osa esserlo; brama l’amore e subito lo denigra. Nel momento in cui decide di rivivere un trauma di vecchia data che aveva segnato la sua anima, non solo raggiunge i bassifondi della disperazione e della ripugnanza verso se stesso, ma, paradossalmente, s’inebria della propria meschinità e pochezza ..

Anche “Memorie” di M. Sgrosso è realizzato sotto forma di un monologo-confessione. L’autore della riduzione scenica va incontro a una consistente “sgrossatura” del testo originale,  snellendo diversi passaggi e eliminando intere scene.  Le sue scelte possono essere condivisibili o meno (come quella, per esempio, di mettere in rilievo il ritroso servo Apollon, visto il modesto interesse che tale personaggio riveste). Quel che suscita maggiori dubbi è che al centro dello spettacolo  egli colloca non il tema dell’autocoscienza  e della consapevolezza dei sentimenti, non  i tormenti di un individuo estremamente infelice, gravato dalla propria convulsa personalità, ma il soggetto (parziale) del romanzo, che, in realtà, come in quasi tutte le opere di Dostoevskij è di rilevanza secondaria. 

E’ logico che lo spettacolo, costituito dai frammenti  estrapolati dai primi e dagli ultimi capitoli dell'opera letteraria, tralasci molti dettagli di grande interesse dei quali meglio di tutti ha detto il protagonista di un altro romanzo di Dostoevskij, Versilov, de “L’adolescente”: “ …quanto più il particolare è minuto, tanto più, a volte, è importante».  Il protagonista infatti non riesce mai a sviluppare completamente i propri pensieri - già di per se confusi e di difficile comprensione nel testo originale– e, di conseguenza, l’attore non riesce a trasmetterli al pubblico.

Apollon (Carluccio Rossi) -  che nella prima scena, per qualche inspiegabile motivo, alla domanda “Chi è?” risponde con una voce baritonale “Sono Lisa” - pare un personaggio uscito da un altro spettacolo. L’impressione che se ne ricava è che sia stato inventato solamente per trovare un posto sul palco per il “compagno d’avventura”. Anche la scenografia (di medesimo Carluccio Rossi) sembra essere presa in prestito a qualche altra rappresentazione. Le immagini che  scorrono  sullo schermo, anziché proporsi come parte complimentare del contenuto, vengono percepite come un elemento di disturbo.

E’ ben risaputo che lo stile di Dostoevskij, pieno di potentissimi contrasti psicologici, eserciti un forte potere di sottomissione sugli attori, mentre la particolarità della sua forma può essere compresa solamente  dopo un’attenta e introspettiva ricerca. Nella regia di Sgrosso, invece, il personaggio, oscurato dalla forte rilevanza attribuita al soggetto, rimane privo di ogni carica emotiva; il significato di pochi episodi “sopravvissuti” ai tagli si appiattisce. E’ il motivo per cui  il suo “uomo del sottosuolo” si presenta molto lontano da quello percepito da Dostoevskij.  Vestito in abiti di taglio veneziano (costumista Marta Benini), probabilmente riciclati da “Le smanie per la villeggiatura” e ben poco attinenti all’ambientazione del romanzo, il protagonista appare decisamente più vicino a qualche locandiere di Goldoni che a un infelice abitante di Pietroburgo. L’idea che il protagonista pronunci il suo monologo seduto al buio su un letto pare a Sgrosso, probabilmente, troppo banale. La forza di persuasione poco efficace. Egli si mette in piedi in mezzo al palco e declama agitando le mani, come se fosse preso da un attacco di moralismo. Il suo modo di rivolgersi a Lisa appare decisamente poco convincente, pieno di enfasi e di inopportuno pathos.In più, volendo dare alla scena il tocco di una farsa,  aggiunge alla fine: “Cazzo, l’ho distrutta!” (guadagnandosi in tal modo il consenso di alcuni spettatori, ma sicuramente non di Dostoevskij).   E’ davvero poco credibile che dopo aver ascoltato un’omelia simile (mentre dalle quinte Apollon manda degli ululati accompagnati da una improvvisata performance percussionista) una donna resista al piacere di allungare una pedata al predicatore, per non parlare del volerlo rivedere ancora… 

Qualcuno potrebbe obbiettare che i testi di Dostoevskij sono pieni di ambiguità quindi chiunque potrebbe interpretare a proprio piacimento. E’ vero. Tuttavia un conto è la libertà di intendere un testo e un altro strumentalizzarlo, privandolo di ogni coerente esposizione. Inoltre Dostoevskij, più di chiunque altro, ha bisogno di essere interiorizzato, assimilato e fatto proprio. Solo dopo averlo setacciato attraverso le proprie viscere si può sperare di riuscire a esprimere lo struggente grido di un’anima viva che cerca di comprendere se stessa. La sensazione che si ricava durante lo spettacolo è che, nonostante le buone intenzioni, tutto questo non sia ancora avvenuto.

Visto il 17-04-2012