MEMORIE DEL SOTTOSUOLO

Chi è troppo cosciente è destinato a non agire

Chi è troppo cosciente è destinato a non agire

Ognuno ha le proprie memorie del sottosuolo. Pochi  però sentono la necessità di mostrare la spazzatura, quasi nessuno di farlo attraverso l'opera d'arte.


Non è la prima volta che Roberto Trifirò, regista e protagonista della pièce, si confronta con le la letteratura russa. Checov, soprattutto. Ma anche Andreev, Gorkij e le opere dostoevskijane. Dopo  “La mite” “Memorie del sottosuolo” è l'ultima fatica che nutre il  felice dialogo artistico con l'autore moscovita.

L'uomo del sottosuolo esordisce dal coridoio della platea in mutandoni da pugile e sale sul palco a sfidare il mondo muovendosi dentro un recinto impolverato dove si distinguono vecchi scrittoi in legno poggiati su un pavimento foderato di cartoni. Dialoga da solo con accenti da intimismo spiazzante che si contorce, si spezza, degenera nel conflitto. Il protagonista parla continuamente con la sua stessa persona. L’io narrante è grandemente cinico ma anche meschino, alternativamente masochista nel perseguimento di situazioni incresciose e sadico nel provocare dolore. Il senso di alienazione è tale che egli scorge e osserva l’altro anche in se stesso, quasi fosse un Narciso al rovescio. Sogna  di agire, ma non lo fa, è contento che qualcosa glielo impedisca, in sostanza è un vile.  E' un uomo che viene meno alla sua umanità, sembra essere un topo di fogna che, lasciato l'ambiente fetido  in cui ha vissuto fino ad ora, nonostante abbia  intravisto la possibilità di scrollarsi di dosso la negatività, preferisce ritornare nel sottosuolo.

Trifirò sceglie di mettere la lente di ingrandimento su due episodi tratti da “A proposito della neve fradicia”, seconda parte del libro dostovskijano. Rabbioso, sporco e senza soldi, il protagonista racconta di un ufficiale che non cede il passo  in una sala da biliardo traducendo l'episodio in un  epilogo vergognoso e umiliante per la sua stessa autostima. Quasi a provare inutilmente a schiarire questo monologo autoreferenziale appare la giovanissima prostituta Liza, interpetata con sensibilità da una brava Caterina Bajetta, vestita in abiti che sanno di polvere. L'incontro non diventa occasone di riscatto ma  sfogo  della frustrazione, piacere nell'umiliare chi sta ancora più in basso di lui. Le parole che svelano le nefandezze sono vuote di spirito, nervose e fragili.

Trifirò confeziona il testo in una bella messainscena dove la passione per il personaggio riscatta il rischio -appena sfiorato nella prima parte- di cadere in un certo formalismo ridondante.  La tensione resta alta fino alla chiusa, quando una botola del palcoscenico accompagna la definitiva uscita del protagonista e dalla platea si levano applausi generosi e sentiti.

Visto il 14-06-2013
al Fontana di Milano (MI)