La stagione 2016/17 del Teatro Goldoni di Venezia comincia con un poker d’assi, riprendendo un noto adagio si potrebbe dire che al Teatro Stabile del Veneto piace vincere facile. Unica tappa italiana dello Shakespeare’Globe Theatre di London, questo The Merchant of Venice per la regia di Jonathan Munby e la magistrale interpretazione di Jonathan Pryce ha infatti il merito di rinsaldare quel patto di fiducia che ogni spettatore stringe con gli interpreti ogni volta che un sipario si alza.
The Merchant of Venice non è certo uno spettacolo perfetto, gli manca ad esempio il nitore rarefatto delle messe in scena shakespeariane di Peter Brook, ma ha il suo pregio maggiore in ciò che molto spesso viene negato al bardo inglese e cioè riconoscere la dimensione popolare, quasi ludica, delle sue opere. Già, dimenticarsi che il teatro di Shakspeare è stato innanzitutto un teatro popolare, che il suo Globe Theatre a Londra strizzasse l'occhio più ad una arena che a un compassato salotto è uno sport molto diffuso sui palcoscenici europei, per non dire solo di quelli italiani. Il Mercante di Venezia con la regia di Binasco e lo Shylock affidato a Silvio Orlando visto proprio al Goldoni di Venezia due stagioni fa ne è la prova: uno spettacolo fintamente popolare con trovate da speculazione intellettuale più fini a se stesse che altro.
Munby parte invece dall'idea che lo spettacolo sia una festa collettiva: la scena iniziale che si materializza all'improvviso prendendo tutti di sorpresa con attori e musici quasi tarantolati tra scena e platea segna chiaramente la rotta. Tutto lo svolgimento dello spettacolo mantiene fermo questo principio, pur ammiccando, talvolta troppo, a furberie cabarettistiche, come quando Lancillotto Gobbo chiama sul palco due spettatori con i quali gioca al conflitto interiore. Il pubblico ride di gusto e Lancillotto perde un po' il bandolo della matassa perché deve tenere a freno una signora che sul palco gioca a sua volta a fare l'attrice. Ma, va detto, questa momento così rischioso per l'intera struttura spettacolare viene genialmente recuperato quando lo stesso Lancillotto, dopo aver congedato uno dei due spettatori, lascia il secondo sul palcoscenico, proprio mentre stanno entrando gli altri personaggi: lo spettatore è spaventato, ma lo sono ancora di più Bassanio e company che in quello spettatore scorgono una sorta di buco nero spazio-temporale. E’ questa, direi, una tecnica di straniamento di gran classe.
E la festa continua, l'inizio della seconda parte dello spettacolo è ancora un ballo, dove musica sacra e laica si rincorrono in un repertorio di movenze sensuali: cominciano Lorenzo e Jessica, ma poi si aggiunge Porzia, in uno sorta di rito di corteggiamento che ha il sapore della festa popolare. In questo clima di festa si innesta la storia disperatissima dell'ebreo Shylok e dalla sua malsana idea di chiedere come garanzia del prestito ad Antonio una "libbra di carne" del suo corpo.
La vicenda è nota a tutti e Jonathan Pryce riesce a tratteggiare uno Shylok misuratissimo dove mai un gesto o una parola sembrano andare oltre il dovuto, dove anche gli scoppi di rabbia o le invettive scavano all'interno della sua anima, piuttosto che uscire fuori dalla sua bocca. Ad uscire davvero dalla bocca di altri è invece lo sputo che ben visibile a tutti gli spettatori lascia una macchia bianca sul mantello nero dell'ebreo o il vomito che uno dei sodali di Bassanio al loro primo arrivo in scena deposita, sempre ben visibile a tutti, in un secchio poggiato a terra. Un iperrealismo piuttosto discutibile, se si vuole, perché rischia di scatenare l'effetto contrario, rischia cioè il grottesco, un grottesco per giunto ilare. Il pubblico, infatti, invitato a nozze ride.
La semantica dei segni teatrali è pericolosa, si sa, ma Munby è un regista che non si fa prendere la mano e sa convertire tutto a suo vantaggio con un finale potentissimo dove la disperazione di Jessica si vocalizza in una straziante giaculatoria ebraica che si mescola al "credo in unum deum" cantatato a voce potente dai prelati che, in candide veste battesimali, accompagnano l'ebreo alla conversione. Qui Shylok/Pryce tocca il vertice della sua interpretazione, il canto stentato e quasi in controtempo, mezzo parlato e mezzo venato di pianto è l'ultimo gradino di una sconfitta che suona come un avvertimento alle nostre coscienze.
Bravi tutti gli attori, tenuti a freno da una regia severa ma al tempo stesso indulgente verso guizzi buffoneschi, è il caso per esempio del Principe del Marocco e di quello d'Aragona, o certi vezzi da "parlarsi addosso", come per l'attrice nel ruolo di Nerissa fedele dama di compagnia di Porzia.
Valutazioni sulla lingua di Shakspeare e sulle sue sfumature in scena non è cosa che si possa chiedere ad un povero recensore, piuttosto a digiuno di inglese per giunta, ma sono sicuro che molti in platea avranno a tratti lasciato perdere il display luminoso con la traduzione e prestato semplicemente orecchio ad una lingua pastosa e sonora, sempre intensa e graffiante o in alcuni casi alleggerita da coloriture locali come per esempio quella del Principe del Marocco. Tuttavia, è proprio la lingua a trovare spiragli comunicativi improvvisi e sensibilissimi, come nel momento in cui Shylock e sua figlia Jessica, in un momento in cui amore e odio si confondono, finiscono con il parlare un nobilissimo yddish, lingua meticcia se si vuole, ma anche lingua delle ferite e della diaspora.
La ferita che Shylock non riesce ad infliggere sul petto di Antonio si rivela in tutta la sua potenza scarnificatrice nell’ebraico finale di Jessica e nel latino poderoso della ecclesia triumphans.