In principio fu il culto della Madre Terra. Le storie e gli antichi rituali connessi al tema della fertilità rigeneratrice, molto radicati in Sicilia ed emblematizzati dall’immagine della statuetta steatopigica della Venere di Willendorf, cui rimanda il titolo dello spettacolo: «Minnazza», ovvero “seno mastodontico”, con un suffisso peggiorativo in -azza che preannuncia subito una pennellata critica.
È infatti una narrazione in chiaroscuro quella con cui Gullotta, iniziando dai miti plurimillenari, coinvolge con spontaneità il suo pubblico catanese alla riscoperta di “una memoria che rende umani”: un tragitto critico delineato con sagacia dalle scelte del regista Fabio Grossi e che tocca il culmine nel perfetto connubio tra la potenza della parola, le struggenti composizioni per fisarmonica di Germano Mazzocchetti, le proiezioni sfolgoranti sui fondali.
Così, alla celebrazione della vita terrena in ogni suo aspetto, molto sentita tra i siciliani e nella loro letteratura, fanno da controcanto il dolente pessimismo e le tristi vicende al centro della narrazione di denuncia. Perché la Sicilia, da tempi immemorabili, è anche una terra di povertà, emarginazione, sopraffazione del più debole, illegalità diffusa. E in primo luogo a questo servono l’arte, la parola e il teatro –si vuol comunicare con il presente spettacolo: a restituire dignità agli umili indifesi che non hanno voce in capitolo nella Storia, come ben esprime pure il poeta bagherese Ignazio Buttitta nei versi infiammati di Nun sugnu pueta, usati come prologo all’intero récit.
Il teatro civile degli onesti
Altro tema portante, che si snoda quale fil rouge attraverso le letture, è quello dei martiri di Sicilia, tutti gli uomini onesti che per amore verso questa terra e i suoi abitanti sono giunti al sacrificio estremo della vita. Come i giudici Falcone e Borsellino, della cui uccisione ricorrerà a breve il 25° anniversario: che restano vivi e presenti tra noi attraverso l’opera della memoria e le azioni concrete di testimonianza e lotta civile. Un doveroso compito etico che costituì il principale impegno anche per il giornalista Giuseppe Fava. Quest’ultimo, ucciso proprio davanti al Teatro Verga il 5 gennaio 1984, nella strada che poi gli è stata intitolata, non si stancava di insistere sul problema della manipolazione delle coscienze ad opera dei mass media e dei loro amministratori, «i nuovi padroni del mondo». Anticipando di gran lunga i tempi anche nei suoi lavori teatrali, egli sottolineava la centralità della conoscenza critica dei fatti per tutte le persone perbene e oneste, in vista di una società migliore: perché - come il giornalista palazzolese usava dire- «se non si è disposti a lottare, a che serve essere vivi?»
Un (im)possibile cambiamento?
Ecco prospettarsi l’immagine di una Sicilia ambigua e“difficile”, forse una “madre matrigna”, che in epoche non lontane ha costretto i suoi abitanti all’emigrazione di massa. Una terra immobile, refrattaria al progresso, da cui si può solo scappare, come quella tratteggiata nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa dal principe di Salina («il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’»), il quale, da buon conservatore, celebra l’apologia dello status quo isolano: «il sonno è ciò che i Siciliani vogliono…». Parole lapidarie che escludono la possibilità di un cambiamento, riflettendosi nel drammatico destino di morte spesso incontrato dai tanti siciliani espatriati in cerca di fortuna. Come il poverissimo zolfataro protagonista di Lu trenu di lu suli: la lirica di Buttitta con i cui versi si chiude circolarmente la pièce, nell’amara rievocazione della strage di operai italiani nel distretto carbonifero di Marcinelle, avvenuta in Belgio l’8 agosto 1956. Esperienze atroci che rivivono oggi nelle sventure patite dai migranti in fuga approdati in Sicilia: storie da non dimenticare, di nuovo parole che lasciano il segno, nella speranza che la loro memoria possa sovvertire errori e nefaste profezie del passato alla prova decisiva dei fatti.