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Una macchina performativa estetizzante

Una macchina performativa estetizzante


Un palco spoglio, annebbiato dai fumi della macchina del fumo  che, ripetutamente, per tutta la coreografia, si interpone alla visione degli spettatori, relegati alla galleria, mentre la platea è completaente coperta da un bianco tessuto sintetico.
Dopo un proclama detto in francese, lingua straniera, e dunque non necessariamente decodificabile dallo spettatore, senza alcuna  traduzione, comunicando dunque solo la distonia tra l'intenzione comunicativa della lingua e la sua indecifrabilità (almeno per i più) lo spettacolo (non lo si può chiamare propriamente coregorafia) si dipana in tutta la sua cerebralità, algida,  criptica, ostica, noiosa.
Ci prendiamo la responsabilità di ogni aggettivo che abiamo scritto dichiarando una sconfitta di partenza: quella dell'inconprensione della macchina performativa allestita dal coreografo Michele di Stefano, dal Musicista Lorenzo Bianchi (cui si devono le invasive e disturbanti musiche elettroniche)  ed eseguita dai performer Philippe BArbut, Biagio Caravano, Hiathem Dhifallah, e Laura Scarpini, della quale non comprendiamo necessità nè urgenza comunicativa, dichiarando la nostra sconfitta esegetica, lasciando a qualcuno più bravo di noi la facoltà di comprendere e apprezzare.
Noi che, pure, dobbiamo rendincontare al lettore, non possiamo che dichiarare la nostra difficoltà e la nostra impossibilità. La nostra difficoltà di dare un senso alle forme fin troppo evidenti della traduzione grafica di un viaggio planetario, connotato da futili e icastici segnali (un copricapo orientale, una gonna hawayana, qualche dettaglio di una bandiera, il simbolo di un bersaglio) più altri segni pretestuosi (presuntuosi?) quali una pianta su uno skateboard, un giocatore di golf con la sua mazza ferrata, l'invasione del palcoscenico di tante palline da golf. Ancora l'impiego da parte di uno dei performer di una polvere bianca con la quale infarina un altro performer. La ricerca performativa incentrata sul corpo atletico maschile e femminile, e una ricerca coreografica incentrata sui parossistici movimenti degli arti superiori (una via di mezzo tra Walking Like an Egyptian e certe pose classiche da culturisti anni cinquanta) senza musica alcuna a sostenerla caratterizzano una performance che si pone come una critica alllo sguardo occidentale, tutto incentrato sul corpo desiderante e desiderato maschile e (forse) venato di sottile omoerotismo, in un confronto con civiltà altre e culture altre qui definite da elementi secondari ed esornativi, derivati  dalla nostra cultura etnocentrica.
La forma totalmente estetizzante della critica alla cultura occidentale come "occhio che guarda" non suggerisce però alcuna vera presa di posizione, alcuno schieramento etico, non si fa, cioè, discorso politico (nel senso letterale di vita nella città)  e sembra parlare solamente ai cultori dell'arte per l'arte.
Non dicendo nulla a chi, come chi scrive, non sa raggiungere certe altezze dell'animo dalle quali solamente si può pienamente apprezzare questa ricerca teatrale e coreutica  troppo emertica per aver davvero la vocazione di comunicare.

Visto il 28-04-2011
al Palladium di Roma (RM)