Lirica
MOïSE ET PHARAON

L'EBREO ERRANTE

L'EBREO ERRANTE

Roma, teatro Costanzi, “Moïse et Pharaon ou Le passage de la mer Rouge” di Gioachino Rossini

L'EBREO ERRANTE

Durante il periodo napoletano Rossini compie diversi tentativi di allargare i confini dell'opera seria, praticamente reinventandola, fondendo le suggestioni romantiche alla sensibilità settecentesca (da qui il futuro teatro di Bellini e Donizetti). Come nel “Mosè in Egitto” del 1818: del debutto al San Carlo rimane il resoconto di Stendhal, colpito, oltre ogni sua attesa, dalla nobiltà e dalla potenza evocativa del canto del profeta, nonostante il ridicolo causato dalla realizzazione del passaggio del mar Rosso.
Cinque anni dopo (e dopo il matrimonio con Isabella Colbran) Rossini sente che non è possibile proseguire senza un rinnovamento totale, che tenta all'estero: Vienna, Londra e poi Parigi, dove rimane per tutto il resto della vita, nonostante le lunghe parentesi italiane. A Parigi debutta nel 1827 “ Moïse et Pharaon ou Le passage de la mer Rouge”, rielaborazione profonda del precedente (come “Maometto II” divenuto “Le siège de Corinthe”). La scrittura vocale viene modificata grazie all'eliminazione dei passi più scopertamente belcantistici, sono notevoli l'approfondimento drammatico in direzione del romanticismo e, ancora di più, l'allargamento dell'impianto a favore del gusto tipicamente francese per gli spettacoli di grandi proporzioni, che daranno vita in quegli anni al grand-opéra. La struttura del Mosè diventa così in quattro atti con il ballo incluso nel terzo, la stessa che, per la prima volta, è in scena a Roma in apertura di stagione.

Lo spettacolo è creazione totale di Pier'Alli, autore di regia, scene, costumi e video, con l'apporto essenziale delle luci perfette di Guido Levi. Il regista affronta la partitura con le caratteristiche che sono la sua cifra stilistica personale, proiezioni e una solenne staticità delle masse, le quali in questo caso appaiono ideali, considerato che il plot è poco articolato e la presenza (evocativa) della divinità fondamentale.
All'apertura del sipario sul velatino che chiude il boccascena un'immagine significativa: una lunga scritta ebraica su pietra viene spazzata via dalla furia delle acque per poi ricomparire tra i flutti. La cultura ebraica, che vive di tradizione orale più che di documenti, viene travolta dalla forza muscolare degli egizi, salvo poi riaffiorare per la resistenza della memoria.
Quindi il velatino si alza su un motivo che torna più volte, a segnale il filo conduttore e una chiave di interpretazione della vicenda, la storia infinita della diaspora, l'errare senza requie degli ebrei cominciato nel I secolo d.C. alla fine della guerra giudaica con la distruzione del tempio: un gruppetto di sette ebrei ortodossi in abiti contemporanei (cappotto e cappello a larghe falde neri) sono rivolti verso il Muro Occidentale e pregano coi libri in mano, dondolando avanti e indietro. Essi sono presenti in altri momenti, come, sempre nel primo atto, durante la consacrazione dei primogeniti, quando appongono sulla fronte dei bambini le scatoline nere legate coi lacci. Oppure nell'ouverture del quart'atto con le valigie pronte. Erranti, sempre.

La scenografia ha come elemento base tre pareti alte che chiudono il palcoscenico, contribuendo in modo determinante ad un rimando ottimale del canto, come una camera acustica. Le proiezioni video, particolarmente elaborate ed affascinanti, ricreano una città in stile Metropolis che unisce suggestioni tratte dai progetti futuristi di Sant'Elia alle immagini più note dell'architettura contemporanea, la Transamerican pyramid di San Francisco e la Piramide del Louvre. Le immagini sono parte integrante dello spettacolo ed hanno un rilevo fondamentale nell'economia della messa in scena. Nel primo atto candelone grandi come colonne con le fiammelle in luogo dei capitelli, il panorama di ardite architetture verticali, naufragi ed incendi. Nel secondo atto il senso
opprimente della notte innaturale a cui succede una luce progressiva figurata con rombi giallastri, divinità egizie in movimento con luce intermittente, interni prospettici che moltiplicano gli elementi scenici, esterni fantascientifici.
I costumi caratterizzano immediatamente: gli ebrei sono facilmente riconoscibili perchè, rispetto agli egizi, appaiono sempre cenciosi, polverosi. I protagonisti sono maggiormente sottolineati dagli abiti, i colli imponenti, le cinture monumentali, mantelli e tuniche oversize con un certo gusto fantascientifico (rectius, di archeo-fantascienza) che si riflette anche in alcuni elementi scenici, come il trono di Faraone. Il regista cerca l'effetto emotivo e va oltre il rigore storico, per cui vediamo in mano agli egizi dei fucili mitragliatori ed Amènophis ha sulla cintura una fondina con la pistola.
I movimenti dei protagonisti e delle masse sono sempre limitati, trattenuti, caratterizzati da una ieratica lentezza che diventa grandiosa immobilità.

Il ballo del terz'atto è accompagnato da un video che mostra un interno dall'alto con una prospettiva sghemba, sui pilastri che sostengono la copertura sono addossate capsule, forse ascensori; qui i ballerini in video si muovono con una specie di passo dell'oca, il palmo rivolto in alto da cui si libera un filamento fumoso, la palma del martirio nell'altra mano.
La coreografia di Shen Wei è minimalista ed improntata ad una rigorosa geometria dei movimenti e dei gesti. La solita fusione di elementi (opera cinese, teatro, discipline orientali e danza moderna occidentale) che caratterizza le sue creazioni qui pare rarefatta, ridotta all'essenziale: rimane il concetto di corpo visto in un'ottica di sacralità, capace di rigenerarsi in simbiosi con la Natura. Il sincronismo meccanico dei gesti dei ballerini impone un'idea di unità e, al tempo stesso, di molteplicità: ripetere gli stessi gesti meccanici (come ingranaggi) ma disallineati e non in contemporanea. Le pose plastiche prevalgono sui gesti, la lentezza caratterizza il movimento anche dell'étoile ospite Fang-Yi Sheu.
Una coreografia che ben si accompagna alla concezione registica e scenotecnica di Pier'Alli, ma il pubblico ha mostrato qualche dissenso.

L'inizio del quarto atto propone un'immagine rarefatta, surreale: i sette ebrei (di cui all'inizio) sono di spalle, sparsi sul palcoscenico, ombre nei lunghi cappotti neri, monadi di solitudine: accanto a ciascuno una valigia legata con le corde. Il viaggio, la diaspora, l'incomunicabilità.
Nel contempo il video mostra frontalmente gli ebrei dell'opera in cammino nel deserto divisi in piccoli gruppi, un cammino che invero è semi-immobilità, immagini piene di pathos, capaci di suggerire la tragedia incombente e la crescente attesa. Gli ebrei spariscono nel video e rimane il deserto, il vuoto, come un miraggio. Quindi il palcoscenico si riempie dei coristi-ebrei, la porzione centrale si solleva un poco come un ponte, Mosè si avvia, il muro di fondo si chiude, le proiezioni mostrano onde tempestose, quasi lingue di fuoco: una barriera invalicabile. Dalle feritoie nel muro luci accecanti verso il pubblico nel momento, emozionante, di “Des cieux où tu résides”, tutti con un braccio alzato verso il cielo e Mosè con le braccia aperte. Il muro si apre, si inclina, nel video il mare tempestoso si divide in due, le acque turbolente (in video) invadono il palco e la cornice del boccascena, pare di essere negli abissi. Gli ebrei avanzano dietro Mosè, Eliézier (chissà perchè Rossini cambia in questa edizione il nome di Aronne), Anaï e Marie. Li seguono gli egizi, sui quali il mare si richiude. Il velatino che chiude il boccascena mostra un video con un intreccio di corpi e volti, un groviglio inestricabile colorato di blu acquoso, poi marrone terragno. L'immagine si rimpicciolisce e poi scompare, lasciando un deserto vuoto che poi scolora nel nulla.
Sul quarto atto Rossini interviene a Parigi in modo significativo, forse per l'insuccesso napoletano: il mar Rosso è attraversato camminando sulle acque anziché sul fondo marino dopo che il mare si è diviso in due (come nel dettato biblico). Pier'Alli raggiunge qui il vertice con un risultato di grandissimo effetto, nonostante mostri per esigenze di spettacolo il mare dividersi al passaggio degli ebrei, come nel film icona di Cecil De Mille “I dieci comandamenti”, e non il camminare sulle acque del libretto.

Riccardo Muti affronta per la terza volta la partitura, dopo la Scala e Salisburgo. Abbiamo avuto l'impressione che il Maestro abbia voluto creare un ponte ideale con il Nabucco che dirigerà a Roma in marzo, due vicende che parlano di ebrei in schiavitù che cercano di raggiungere la terra promessa e pongono prepotentemente il tema degli ideali libertari di riscatto dei popoli. Il Moïse di Muti è monumentale, gli archi sono sontuosi, compatti, morbidi, dai quali emergono i solisti nel delicato equilibrio tra momenti drammatici ed epici ed altri più intimi e lirici (ottoni splendidi). Efficacemente ha eliminato il cantique finale, lasciano all'indicibile potere della musica il senso di concludere. Muti riesce a tenere costantemente alta la tensione per tutto lo spettacolo con vigore ritmico e pulizia di suoni, cesellando con sensibilità i momenti concertati e garantendo un perfetto amalgama tra solisti, coro e orchestra.

Ildar Abrazakov è un Moïse di buona presenza scenica, un capo-popolo per forza interiore con lo sguardo fiducioso rivolto sempre verso la terra promessa; la voce è controllata e dosata, attenta ai chiaroscuri, all'inizio poco udibile nelle discese nel grave, ma capace di rendere un profondo ritratto umano nel confronto con Nicola Alaimo, Pharaon imponente, tormentato e con voce a fuoco. Eric Cutler è un cattivo e vendicativo Aménophis; il timbro è vellutato e la voce solida e piena nell'improba tessitura che dimostra qualche limite di estensione in alto. Juan Francisco Gatell è Eliézer con la borsa a tracolla da viandante, sicuro nelle colorature con voce luminosa ed espressiva. Sonia Ganassi è Sinaïde a livelli di vera eccellenza: il timbro è bellissimo, la linea di canto è solida e sorretta da una tecnica adeguata, l'accento è incisivo al punto che il finale del secondo atto scolpisce il cuore di chi ascolta per le suppliche toccanti. Erika Grimaldi è una sensibile e corretta Anaï, con qualche forzatura in acuto nel difficile quarto atto e nella sua grande aria “Quelle horrible destinée”. Nino Surguladze, Marie di lusso, ha sostituito nella recita presente Barbara Di Castri. Riccardo Zanellato (Osiride e Une voix mistérieuse) e Saverio Fiore (Aufide) completano adeguatamente il cast.
Vero protagonista dell'opera è il coro, senza dubbio. Qui il coro di casa è apparso in stato di grazia nelle mani del direttore Roberto Gabbiani: pianissimi intensi, di emozionante morbidezza; appiombo perfetto nel passare tutti insieme da un registro all'altro; suono che si impone per la compattezza granitica delle voci e non per i decibel; fraseggio articolato e irrorato di significativi accenti, tutto giocato sul valore della parola e sulla pronuncia. Il pubblico ha giustamente invocato ed ottenuto il bis di “Des cieux où tu résides”.

Teatro affollato, molti applausi, trionfo finale.

Visto a Roma, teatro Costanzi, il 05 dicembre 2010

FRANCESCO RAPACCIONI

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