Dopo Una specie di Alaska, Valerio Binasco mette in scena un altro testo ispirato a un caso clinico descritto dal neurologo Oliver Sacks nel saggio Vedere e non vedere: si tratta della lunga esperienza di isolamento dalla realtà e del successivo, faticoso ritorno alla vita di Molly Sweeney, rielaborata dal drammaturgo Brian Friel.
Molly Sweeney non è cieca dalla nascita e riacquista inaspettatamente la vista, a seguito di un brillante intervento chirurgico. Passata l’euforia iniziale, scopre un mondo più sgradevole di quello che lei aveva immaginato e padroneggiato con la sola esperienza tattile, preferendo tornare a rifugiarsi nella cecità: perciò regredisce gradualmente verso quella che gli specialisti definiscono “visione cieca”, un raro fenomeno neurologico per cui il malato vede, ma niente di quello che vede viene percepito dalla sua coscienza.
Un allestimento vissuto e avvolgente
Come per Una specie di Alaska, anche in questo caso la regia di Valerio Binasco si focalizza sugli attori, che trasmettono al pubblico, tutta la drammaticità di una situazione di (non)vita vissuta, che sfocia nella scelta di una regressione permanente, clinica ed emotiva.
La drammaturgia di Brian Friel consente allo spettatore di immergersi quasi completamente nel mondo – non solo interiore – di Molly Sweeney, governato dal buio; tuttavia, rispetto allo spettacolo precedente, questa volta si percepisce un parziale calo a livello di mordente e di ritmo.
Inoltre, pur nella sua apparenza di “interno vissuto”, la scenografia curata da Jacopo Valsania sembra mantenere interpreti e spettatori in un’appropriata dimensione evocativa, ma, probabilmente, troppo avvolgente e “protetta”.
Paradosso della scienza e umane contraddizioni
Orietta Notari è una Molly inizialmente ispirata, che acquista gradualmente la drammatica consapevolezza (sia nei gesti, sia nella modulazione della voce) di quanto possa essere illusoria la realtà nella quale viene scaraventata grazie alla sua parziale rinascita.
Andrea Di Casa esprime con convincente partecipazione la drammatica condizione di impotenza, propria di chi sacrifica la propria esistenza accanto a una persona che vive una condizione di svantaggio; tra l’altro, uno degli elementi più apprezzabili, a livello drammaturgico, è l’utilizzo di un linguaggio appropriato (non importa quanto delicato o crudo), nell’affrontare il tema della disabilità.
Sempre a proposito di linguaggio, Michele Di Mauro (nel ruolo di Mr. Rice, il medico che esegue l’intervento di Molly), adottando il tipico eloquio del personaggio burbero, superficiale e tormentato, offre al pubblico un’ulteriore prova d’attore sbalorditiva, che contribuisce a smascherare i paradossi del progresso scientifico e, contemporaneamente, le contraddizioni dell’animo umano.