Genova, teatro della Corte, “Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller
PRIGIONIERI DEL SOGNO, DELL’INCUBO, DELLA VITA
Un incubo. Una stanza buia. Forse un interno, forse un esterno. Ma non è importante fuori o dentro. Forse è al tempo stesso fuori e dentro. Un luogo, un non luogo. Un muro nero di mattoni, tondeggiante. Sette porte tutte uguali, alla medesima distanza una dall’altra. Una pedana che gira. Il commesso viaggiatore cammina con fatica, porta un grosso peso, che lo rallenta nel procedere. Non sono solo le valigie ingombranti. E non è solo il peso fisico. E neppure solo il peso del lavoro. È il peso della vita, degli anni trascorsi, degli incontri fatti. Ancora di più è il peso dei sogni infranti, delle speranze tradite, dei rapporti naufragati. Un peso insostenibile. La pedana gira, il commesso viaggiatore cammina, arranca, ma la pedana gira, e gira ancora, e il commesso viaggiatore non si sposta nello spazio. Muove solo le gambe, come tanti, che si affannano, camminano velocemente.. eppure non si spostano. Nonostante lo sforzo. “Sono morto.. di stanchezza.. (…) La vita è solo un fare e disfare, sempre così”.
Il mondo è sempre oltre, sempre oltre quelle porte. La vita non si svolge mai dove noi siamo. Sempre altrove. Dovunque, tranne qui.
Le ombre si allungano sulle pareti, disegnando fantasmi tremuli ma persistenti. I personaggi e il loro doppio. Noi e noi stessi, l’apparente e l’intimo, quello che siamo e quello che facciamo credere di essere. “Qua dentro si muore.. guarda come ci hanno ingabbiato”. “Un giorno busserai a questa porta e dentro ci saranno solo estranei”. L’utopia del sogno americano, l’utopia del facile mondo occidentale, vergognosamente votato solo all’economia: un giorno spero ci risveglieremo da questa follia collettiva, ma quel giorno ci troveremo soli in mezzo ad estranei, soli, anche perché scopriremo che noi stessi siamo estranei a noi stessi, sconosciuti. “Sono solo una barchetta che cerca un approdo”.
“La mia vita non è stata altro che una ridicola bugia”: troppo tardi il commesso viaggiatore, che ha cercato di inculcare nei figli le sue idee positive (e di crederci lui stesso), si rende conto che la propria vita era fondata su una serie di bugie, troppo tardi perché ingannando gli altri mente già a se stesso e nel tempo si convince che è vero quello che lui vorrebbe fosse vero, confondendo così pericolosamente (ma inevitabilmente) i sogni con la vita. Sogni-incubi che tornano in continuazione, che contaminano la vita.
Alla fine la valigia del commesso viaggiatore diventa la sua povera tomba, una valigia che lui si trascina dietro dall’inizio, nella commistione di tangibile ed onirico. È la vita che alla fine ci seppellisce, quello per cui abbiamo lottato, quello che abbiamo cercato di costruire. Invano. “La mia vita non è stata altro che una ridicola bugia”. Il naufragio del sogno americano, il naufragio delle speranze di vite migliori.
La pedana continua a girare, cambia il punto di vista sugli oggetti, ma la sostanza è sempre la stessa. E allora la morte appare come una liberazione. L’ultima via di fuga. L’unica rimasta. L’unica possibile. È buio. Le uniche presenze sono ombre in controluce. Presenze? Assenze? Buio. Solo buio. Dentro e fuori di noi. Buio.
Eros Pagni tratteggia un commesso anziano e stanchissimo, molto efficace. In lui è evidente il senso di rabbia e al contempo di rassegnazione, l’essere sconfitto dalla vita e il tentare un ultimo inutile colpo di coda per beffare un destino che invece è come un muro contro cui si può solo sbattere, sbattere. E sbattere. Fino a sfracellarsi. Il suo interpretare con tale perfezione il ruolo, anzi il suo “essere” il commesso viaggiatore, allarga un buco nell’animo dello spettatore, lacera di fronte a un testo scritto decenni fa e di impressionante attualità, lucido e tagliente ritratto di una società allo sbando che si ostina ad illudersi che esista una possibilità e una via che invero non ci sono.
Orietta Notari è bravissima. Semplicemente bravissima. Straziante nel ruolo tristissimo della moglie casalinga che rammenda di nascosto le calze, mentre il marito regala quelle del campionario all’amante. Una donna che cerca di comporre i dissidi familiari ma che purtroppo non riesce ad evitarne la deflagrazione (“papà ha bisogno di sperare in qualcosa, altrimenti non è felice”). Una donna che è l’emblema stesso della rassegnazione, ma che forse neppure sa di essere rassegnata (come l’immenso genovese Giorgio Caproni scriveva in una poesia straziante).
Bravi anche Gianluca Gobbi e Aldo Ottobrino nei ruoli dei figli: il primo è il fallito Biff, il secondo il vuoto e stupidamente competitivo Happy. Con loro Ugo Maria Morosi, Mario Menini, Davide Lorino, Enzo Paci e i giovanissimi Fabrizio Careddu, Barbara Moselli, Stefania Pascali e Fiorenza Pieri.
Il merito di questo spettacolo splendido va al regista Marco Sciaccaluga. Contribuiscono però in modo determinante all’alto e unitario risultato Masolino D’Amico (splendida la sua nuova traduzione), Valeria Manari (scene e costumi), Andrea Nicolini (musiche) e Sandro Sussi (luci). E gli attori tutti. Insomma una occasione in cui vale davvero la pena andare a teatro.
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto a Genova, teatro della Corte, il 22 ottobre 2005.
Visto il
al
Carlo Goldoni
di Venezia
(VE)