Quarantuno anni a calpestare le assi dei palcoscenici di oltre sessanta nazioni, senza che si ascoltasse durante i loro spettacoli altro che i suoni emessi dalle cose e dal caso, ovvero dalle occasionali ma studiate reazioni di bambini ed adulti rispetto a ciò che stanno guardando.
I Mummenschanz tornano a Napoli e dal loro camion di sorprese escono oggetti di uso comune pronti per essere trasformati in transizioni antropomorfe, e materiali come gomma, tessuti, tubi acquistano una vita propria ed anche di relazione: teatro di figura ma soprattutto di transizione visiva, appunto, ed in passaggi come questi sono maestri, soprattutto se se ne osserva un dettaglio: è sorprendente ed incantevole, infatti, che con maschere ed oggetti di grandi ed ingombranti dimensioni, riescano a concentrare il clou delle azioni spesso soprattutto con la grandezza dei movimenti infimi, quasi impercettibili, che danno il senso all'intero quadro. Che è poi ciò che accade con gli esseri umani e le microespressioni dei muscoli che tradiscono le emozioni, oppure con la maschera di un attore, quando riesce ad impersonificare un particolare sul suo corpo.
La scelta dei Mummenschanz (un nome traducibile con “mascherata”) è sempre stata quella di una stretta fedeltà ad alcuni principi come appunto la scelta della materia umanizzata, e l'assenza di parole, musica e scena: in una parola, di essenza. Ma l'essenza può essere essa stessa materia da plasmare, ed in questo caso dietro c'è come sostegno anche una vera poesia della lentezza (ogni azione prende il suo tempo senza scorciatoie, e viene vissuta anche nel suo divenire) ed una forma di intelligenza tranquilla che precedette, a modo suo, alcuni discendenti assai più artisticamente ingombranti come il Cirque du Soleil o esuberanti come il Blue Man Group.
Se leggessimo una recensione del New York Times del 1977, potremmo pensare che stia riportando la cronaca di buona parte di quanto visto anche oggi, e questo da un lato fornisce una chiave di continuità che è da leggere come adesione ad un'idea che diviene ideale, e dall'altro lascia in coloro che hanno già assistito alle loro performance un senso di ricerca della novità non del tutto soddisfatto: ma l'aspetto più interessante, è che negli ultimi quarant'anni ad essere molto cambiato è l'elemento che sta al di qua del palcoscenico, ovvero il pubblico, e così anche le sue abitudini, che hanno fatto perdere del tutto il senso del silenzio e dell'attenzione ad elementi come il linguaggio non verbale, sommersi come siamo dall'entropia delle parole parlate; non è poco, sapersi ritrovare e saper rimanere sorpresi e sorridenti anche in un'atmosfera low-tech, accorgendosi di quanto essa sia inaspettatamente energizzante.
In questo senso, allora, sperimentare la straordinaria potenza del silenzio è molto più di ieri cosa assolutamente nuova, e l'iniezione di personalità e carattere in oggetti amorfi/polimorfi aiuta a seguire in modo divertente, ed a tratti sbalorditivo, le tracce di una comunicazione che si incentra su elementi ancestrali (il bello contro il brutto, il potere che tende a prevaricare, le storie d'amore estese che in 60 secondi riassumono riunioni, seduzione, rotture e riconciliazioni, le schermaglie da combattimento fra animali...); ed ancora, uno spettacolo non verbale per parlare degli esseri umani, così come creato da questi artigiani di forme e di comunicazione, viene a parlarci del nucleo visivo del mondo, che comincia amorfo di elementi, animali e piante, e poi si evolve, come una discussione, un incontro, un’interazione… e la lezione del Silenzio è che giocare e comunicare è molto più che raccontare storie.