MUTU

Parole, ad ogni costo.

Parole, ad ogni costo.
Una mafia interiorizzata che ascolta la Tosca, prega i santini dei patroni del paese e scoppia di fronte all’intollerabilità di un sorriso, è quella che appare nella scrittura di Mutu di Aldo Rapè al Teatro Elicantropo: nella casa di Saro torna dopo 10 anni il fratello prete Salvuccio (Nicola Vero), scappato dal paese un po’ per incapacità di affrontare quell’ambiente, un po’ per ricercare una strada diversa rispetto a quella inevitabile che gli sarebbe stata richiesta in quanto figlio del boss locale, e ritrova le arie della Tosca, ma anche musiche di un carillon della sua infanzia, oltre ad elementi che dovrebbero caratterizzare un momento di riavvicinamento tra i due, mentre le uniche parole e gli unici gesti sensati che si scambiano sono soltanto quelli che li dividono inesorabilmente. Saro è diventato il killer che ci si aspettava, Salvuccio un embrione di prete-coraggio che non sa stare zitto, contrariamente a ciò che la mafia esprime attraverso la bocca di Salvo quando, di fronte ad ogni tipo di denuncia o anche soltanto ad una parola fuori posto, non sa fare altro che minacciare: Mutu…! All’Elicantropo, con la scena che attraversa nella sua stessa dimensione gli spettatori ai bordi, facendone parte quasi integrante, il Teatro entra nelle case e viceversa, ci fa spiare dentro la quotidianità, come stare dietro un uscio socchiuso della stanza affianco, da cui si spiano parole, inutilità, volgarità e miserie... e c’è un carico molto alto di tensione, una tensione qualitativa della coscienza, di quella che si crea quando si incontrano/scontrano due poli opposti, due mondi che si contrappongono come due elettrodi vicini, troppo vicini e contemporaneamente troppo lontani per capirsi o anche solo per scambiarsi una parola, una comunicazione, qualcosa da mettere sullo stesso piano per entrambi. Man mano, inoltre, si rivoltano realisticamente i ruoli e vengono fuori anche gli aspetti più miserevoli di quella che dovrebbe essere la parte della ragione, quella del prete, anche se resta primario il discorso sulle parole non dette, sull’insegnamento del padre dei due ('a megghia parola è chidda ca nun se dice), e perciò diventa paradossale quanto realistico il fatto che siano le urla, invece, che sovrabbondano, come se le parole non potendo essere pronunciate potessero solo esplodere, e sono urla che somigliano a quelle che si sentono lontano, al buio, quando non si sa da dove vengono, ma si sa per certo che nessuno accorrerà. Mettere i fratelli in un faccia a faccia così intenso e così disperatamente alla ricerca delle proprie ragioni è operazione assai riuscita, come la rivelazione della presenza immanente dell’episodio-chiave cui è legata la storia calandosi nella realtà: ci sono parole e parole, ed alcune di esse se sono pronunciate sono in grado anche di sconfiggere la mafia, e di sicuro la coscienza del killer-Saro, come quelle di Don Pino Puglisi, che il 15 settembre 1993, nel giorno del suo 56° compleanno, venne ucciso dalla mafia davanti al portone di casa, e quando si avvide di essere circondato dai sicari, non fu nemmeno allora “mutu”, ma disse “Vi stavo aspettando”. E rimase fermo. Con un sorriso.
Visto il 18-03-2010
al Elicantropo di Napoli (NA)