Prosa
MY ARM

"ALZO IL BRACCIO QUINDI ESISTO"

"ALZO IL BRACCIO QUINDI ESISTO"

Inghilterra, Isola di Wight. Anni Settanta, un’anonima famiglia inglese della piccola borghesia.
Un bambino decide di alzare il braccio sinistro, prova a tenerlo alzato per un po’ di tempo e ci riesce, è doloroso, ma ci riesce e il mondo che lo circonda inizia ad accorgersi di lui, si preoccupa per lui, così decide, contro tutto e tutti, che lo terrà alzato per sempre quel braccio, sino alla fine, fino a morirne. È il suo personale e singolare modo per sfuggire alla quotidianità, all’insopportabile noia della vita di provincia, e dopo vari tentativi, sceglierà questo gesto alquanto radicale: vivere sempre con un braccio alzato.
Il suo è un gesto «…in assenza di fede. Nessun pensiero ne è causa né effetto»: un urlo senza significato né implicazioni, ma che comunque segnala disperatamente una presenza.

È questo il nucleo drammaturgico di “My arm” lo spettacolo tratto da un testo del drammaturgo contemporaneo Tim Crouch, attore ed autore di successo della scena teatrale inglese degli ultimi anni, che l’“Accademia degli Artefatti” ha realizzato nel contesto del progetto “Ab-uso”; in scena l’attore Matteo Angius e Emiliano Duncan Barbieri che suona una chitarra elettrica, con i contributi video di Lorenzo Letizia e la regia di Fabrizio Arcuri. Matteo Angius la storia la racconta solo e l’arto lo solleva poche volte, ma riesce a trasportarci in modo molto abile e seducente nella paradossale violenza della vicenda che ci narra.
In realtà ciò che Fabrizio Arcuri vuole mettere in scena,non è tanto la vicenda del bambino col braccio alzato, quanto piuttosto vuole porre l’attenzione sul patto che si instaura tra attore e spettatore. Infatti l’interprete, Matteo Angius racconta la surreale ed estrema storia del personaggio senza trasformarsi in esso, ma caratterizzandolo con evidenti tratti autobiografici.

Lo spettacolo inizia con la proiezione di filmini domestici, di famiglia che rappresentano un bambino e il suo fratellino, poi, improvvisamente si illumina la platea ed un giovane e curioso personaggio sulla trentina – Matteo Angius - inizia a muoversi in mezzo al pubblico parlando di sé, soffermandosi a riflettere sulla scelta delle parole che dovrà usare per raccontare la sua storia e chiede al pubblico alcuni oggetti, li sistema su un tavolino, sotto una telecamera che, riprendendoli, li mostrerà ingranditi. Angius si serve di oggetti, o meglio di segni, simboli di altre persone per raccontare la sua di storia, quella del suo personaggio. Assistiamo a una frattura tra significante e significato, ovvero il significato si stacca dalla cosa, in una dinamica di intensa tensione che conduce lo spettatore dentro e fuori da un apologo iniziato intorno al 1970, sottolineato dagli interventi di chitarra di Emiliano Duncan Barbieri, che ripropone i famosi motivi degli ultimi trent’anni della Swinging London.
Matteo Angius cerca di raccontare una storia che si costruisce nella triangolazione drammaturgica tra il suo monologo attraverso gli oggetti che manipola e che fa riprendere alla telecamere, le immagini di repertorio sullo sfondo in cui compare il fratello e la musica della chitarra di Emiliano Duncan Barbieri.

La storia è semplice: un ragazzino degli anni ’70 che decide all’improvviso di tenere il braccio alzato e che col tempo diventa un caso mediatico, un fenomeno da baraccone tra psichiatria spregiudicata, pittura d’avanguardia e conferenze spettacolo.
Le parole si ammassano, si affollano intorno al ragazzo col braccio alzato, sono le parole di genitori, amici, parenti, ma anche le sue e intanto in scena ci sono solo l’attore, il musicista, gli oggetti e un filmato dove un alter ego del protagonista dialoga con lui, lo elude, gli spiega, lo incalza, lo provoca, lo calma, lo deride…e il braccio peggiora, si atrofizza, va in cancrena, ma progressivamente diventa anche un emblema, un simbolo, un oggetto d’arte richiesto dalle gallerie, a Londra, in Germania: paradossalmente l’unica parte “malata” di un corpo è di fatto l’unica viva, significante, degna di attenzione, poiché il resto è un corpo ormai avvilito, annullato, privo d’importanza, un semplice accessorio. Il gesto si trasforma in messaggio, l’azione in comunicazione, senza possibilità di sfuggire a un circo mediatico che si appropria di ogni cosa e la scambia in merce, la fa diventare merce.

Di fatto il nucleo drammaturgico è breve e alquanto semplice, che potrebbe apparire quasi banale se non fosse che lo spettacolo, più che rappresentarlo, gira intorno ad esso, lo evoca coinvolgendo il pubblico in una serie di interrogativi che sono lampi di senso, momenti di riflessione profonda, domande che svelano l’ipocrisia e la crudeltà di un’umanità sfuggente e surreale. Angius coinvolge magistralmente il pubblico, dialoga con esso: entra ed esce dal testo, lo usa, lo maltratta, lo aggredisce, se ne distanzia, usa l’arma dell’ironia per raccontarcelo, per modificarne l’impatto e la forza, il dialogo col pubblico si alterna al suo monologare dialogando col fratello/alter ego che compare nel video alle sue spalle oppure con gli oggetti che ha chiesto al pubblico all’inizio dello spettacolo o che già si trovavano sul tavolino. Gli oggetti, di volta in volta, diventano uomini, donne, i genitori del bambino, gli amici, il neuropsichiatra che lo ha in cura: sono oggetti le persone, sono oggetti i personaggi, ovvero assistiamo al fenomeno della “reificazione”, la trasformazione in “cosa” dell’umanità che vive il nostro mondo.
È uno spettacolo amaro, a tratti inquietante nella sua fredda razionalità e ironia, nella sua leggerezza straniata, nel suo vivere “tra le righe”: una costante e complicata ricerca senza rassicuranti punti di approdo o di riferimento, una perenne tensione tra verità e finzione, tra  il “teatrino” di una vita mercificata e il paradosso di una vita tentata nel teatro per poter trovare se stessi, per poter essere autentici, veri.
Il teatro di Crounch sembra un teatro traumatizzato dalla società dello spettacolo, quasi vittima della società dell’immagine e della capitalizzazione mediatica: questo lavoro sembra raccontare la resa “politica” del teatro, delle sue possibilità sceniche e attoriali, il trionfo del vuoto esistenziale che è il palcoscenico ( e la platea).
La comunicazione verbale a tratti sembra quasi falsa, è impregnata da un’ambiguità di fondo – credo voluta e ricercata, si muove in superficie: la leggerezza di questo spettacolo assume un preciso valore politico e sociale, la potenza e la forza dello straniamento del personaggio, la profonda e angosciante tragedia quotidiana che ci racconta non fa altro che urlarci addosso con violenza quanto lontani siamo dalla possibilità di vivere autenticamente e di percepire noi stessi e l’umanità di chi ci sta accanto, meno che, non si decida di uscire dal coro, di compiere un atto estremo… come alzare un braccio.

Visto il 26-01-2011
al Teatri di Vita di Bologna (BO)