Il teatro dell'Opera di Roma celebra i 150 dell'unità d'Italia con un nuovo allestimento di Nabucco, sette recite in cartellone (12/15/17/19/20/22/24 marzo) di cui una (il 17) riservata alla Presidenza del Consiglioe trasmessa da Raitre. Punto di forza è la direzione di Riccardo Muti, tornato in piena forma dopo i fatti di Chicago. Muti ci tiene a precisare: Nabucco è opera biblica e non risorgimentale. Verdi era un uomo del Risorgimento, in cui credeva, che aveva dentro di sé e che dunque metteva nelle sue note, ma Nabucco è più simile ad una sacra rappresentazione che ad un'opera in senso tradizionale. E ciò è vero tanto più se si fa riferimento a quanto Verdi raccontava: non aveva accettato di lavorare sul libretto, che si era ritrovato in tasca inconsapevolmente; lo butta sul letto e questo si apre sulla pagina del Va' pensiero. Un segno del destino o una casualità? Il primo, certamente, per Verdi, uomo che ammirava la Bibbia e il particolare le pagine veterotestamentarie, decidendo quindi di lavorare alla partitura, nella quale Muti rintraccia la concezione etica del compositore, ancorata alle certezze di una solidità incrollabile tipiche del Vecchio Testamento.
Muti sente e trasmette al pubblico tutto questo. Della partitura sottolinea le morbidezze, privilegiando le arcate lunghe e rotonde. Certo che ci sono anche i tumulti, ma vengono ripresi con un'aura sacra piuttosto che con impeto libertario: l'anelito a liberarsi dall'oppressore è la conseguenza e non la contingenza. Muti ne dà una personale, originalissima versione, anche nei tempi, allargati e serrati. Allargati nei momenti intimi e riflessivi, consentendo ai sentimenti il dispiegarsi; serrati nei momenti concitati, producendo quell'attesa che culmina con il finale del terzo atto. Il Maestro tiene saldamente in mano l'orchestra, il coro e i cantanti e dà rilievo agli strumenti solisti, tra cui il violoncello. Particolarmente suggestive le pause piene di significati (nell'ottetto “S'appressan gl'istanti” e anche in seguito). Giusto il rilievo dei sottovoce (esempio: “Tremin gl'insani”) che si caricano di tensione. Il suono, curato nei dettagli, esce dalla tradizione consolidata, è un impasto materico di fili scuri, screziati, in cui i fiati danno chiazze di luce che rendono ancor più suggestiva la voce degli archi. Il ritmo è roccioso, granitico, implacabile ma al tempo stesso permeato di morbido abbandono; le asperità sono taglienti ma diventano funzionali all'insieme: forza e afflato unificate con grande forza drammatica e tensione epica.
Meno ha convinto la parte visiva. Lo spettacolo è immerso in una luce grigia che fa emergere dal buio le figure, varie tonalità di grigio senza possibilità di intravedere una redenzione. Le quinte paiono di mattoni, stesso materiale che si indovina nel fondoscena del primo atto, dove viene proiettato un sole fisso e sbiancato, che non produce alcuna luce né nel paesaggio né nell'animo dell'uomo oppresso. A terra cenere vulcanica e lapilli, che cadono dall'alto accumulandosi al centro. Nel secondo atto quinte scorrevoli riportano il motivo delle nuvole che c'è sullo sfondo a sfumare una torre di Babele stilizzata e spiraliforme. Nel terzo e nel quarto atto il fondo è biancastro ed è come se fosse stato realizzato con colpi di spatola di una materia pittorica densa e pastosa, contro cui si stagliano cinque piccoli alberelli. Nell'atteso “Va' pensiero” il coro sale dal basso, immobile sopra la pedana, prima in penombra poi maggiormente illuminato (luci di Urs Schönebaum, belle nel finale, di taglio laterale dietro Abigaille) davanti a rovine oscure e scure sullo sfondo del sole spento.
La regia di Jean-Paul Scarpitta (sue anche le scene) è poco incisiva: le situazioni sceniche appaiono non determinate e l'azione non decolla, seppure è vero che Nabucco è opera priva di vera dinamica. Alcune scelte sono lontane dal dato reale: nel secondo atto Zaccaria prende in mano una torah, ma è vietatissimo toccare con mano i sacri rotoli, altrimenti debbono essere sepolti in quanto inutilizzabili (tanto è che per aprirli e chiuderli ci si serve di supporti, come di manine per seguire le righe senza neppure sfiorare con un dito la carta). Altre sono poco risolte, come il finale del secondo atto, reso con un raggio di luce che isola Nabucco dal buio progressivo del resto del palco, Nabucco che però aveva cominciato prima a togliersi il mantello senza un vero motivo. Poco chiaro il finale, quando entra in scena una comparsa vestita di rosso in abiti contemporanei che ha in mano un neonato.
I costumi di Maurizio Millenotti sembrano riprendere l'idea del kolossal anni Sessanta, scegliendo una quasi uniformità per gli ebrei, nettamente distinti dai babilonesi coi complicati copricapi. Fenena è in virgineo celeste, un peccaminoso rosso scuro per Abigaille alternato a un intenso azzurro screziato di oro luccicante.
Leo Nucci affronta il ruolo del titolo con la sua grande esperienza e si impone per dignità ed autorevolezza (non avrebbe la necessità di salire sopra la montagnetta al suo ingresso per svettare sugli altri); è efficace in particolare negli ultimi due atti, la voce morbidamente piegata a rendere gli aneliti dell'anima, le svolte interiori: Nucci dà il meglio nell'evoluzione di Nabucco dalla barbarie incosciente alla comprensione della propria umanità, che rintraccia poi negli altri, un personaggio mai impostato sull'alterigia (commovente il “Dio di Giuda”).
Antonio Poli ha sorpreso per la voce di bel colore, incisiva ma controllata, ricca di screziature; il giovanissimo tenore, penalizzato dalla regia forse più di altri, ha acuti solidi, luminosi e pieni, registro centrale sontuoso e basso vellutato. Dmitry Beloselskiy è un giovane Zaccaria (ma nella radice del nome ha Belo, curiosa coincidenza) con voce ben timbrata e di giusto colore; espressivo in “Come notte a sol fuggente”, che contiene il primo riferimento all'impeto libertario (“Ne' tuoi servi un soffio accendi che dia morte allo stranier”). Csilla Boross e Viktoriia Chenska si alternano nelle recite nel ruolo di Abigaille, che sfoggia una parrucca rosso fuoco quasi fosse una Maddalena e unghie smisuratamente lunghe come artigli ferini. Anna Malavasi è una Fenena riservata, vittima degli eventi, convincente vocalmente negli assieme e nella sua aria. Goran Jurić è un giovane sacerdote di Belo, scuro nella voce e robotizzato nelle movenze costrette dall'abito grande e rigido. Bravi Saverio Fiore (Abdallo) ed Erika Grimaldi (Anna). Il coro, preparato da Roberto Gabbiani, è parso poco preciso soprattutto nei momenti in cui è chiamato a distinguersi in diversi gruppi di canto; convinto e convincente nel “Va' pensiero”, puntuale nei passaggi dai piani ai forti, espressivo nel tornire il verso.
Teatro esaurito, vivo successo da parte di un pubblico attento e generoso; significativo e incisivo che Muti si sia unito alle proteste per gli sciagurati tagli del Governo allo spettacolo e alla cultura.