Accantonato l'allestimento di Denis Krief coi moduli metallici, torna in arena lo spettacolo di De Bosio del 1991 con scene di Rinaldo Olivieri che consentono sempre un doppio piano di calpestio collegato da scalinate rette o a tenaglia. Il tempio di Gerusalemme è impostato su parallelepipedi decorati da linee geometriche che si replicano in profondità e ricordano le architetture futuriste di Sant'Elia; la reggia babilonese è risolta con una ziggurat circolare a più piani rastremati preceduta dagli stessi parallelepipedi ma posizionati dal lato con figure in rilievo. Il rigore delle forme caratterizzerebbe, nelle intenzioni registiche, la cultura monoteista (intesa non solo in senso religioso ma anche civile e sociale, come individualismo ed essenzialità) e si contrapporrebbe alla cultura della pluralità, dominata dalla legge del più forte e da estetismo e ridondanza nelle forme (esemplificate coi capitelli di Persepolis). Olivieri sceglie per le scene colori impastati di terra: marrone, giallo, bianco canapa, le stesse gradazioni (con dominanza di marroni) utilizzate per i costumi degli ebrei, mentre ai babilonesi sono riservati colori accesi e sgargianti, declinati in abiti lunghi, mantelli, fusciacche, copricapi e veli sempre accompagnati da calzature dorate che avvolgono le gambe fino al ginocchio.
Enorme il numero di coristi e comparse: la regia cerca (e trova) l’effetto spettacolare della distribuzione nello spazio, preferendolo all’approfondimento dei caratteri, per cui i protagonisti accompagnano il canto con la gestualità ed i movimenti che il pubblico si aspetta. Nel finale la torre si spacca, fumando come un vulcano che le forme troncoconiche ricordano, laddove la distruzione del tempio di Gerusalemme era risolta in modo approssimativo staccando carta da parati dalle gradinate e maltrattando donne e bambini.
Si insiste molto sulla presenza della torah quando in scena c’è Zaccaria: il valore della parola come veicolo del pensiero e del volere di Dio. Nel momento del Va’ pensiero il coro è disposto su pedane come sul declivio di una ripa di fiume: fantasmi di quelli che un tempo furono uomini, intabarrati nei mantelli scuri.
Da rilevare l'interesse dal confronto ravvicinato di questo allestimento “classicamente” areniano con la nuova Aida dei Fureri “modernamente” areniana.
Julian Kovatchev dirige con tempi serrati che non giovano neppure al linguaggio del primo Verdi. Notevole la prova del coro preparato da Armando Tasso, a cui il pubblico impone il bis del “Va’ pensiero”, cantato con rispetto dei toni intimi nonostante gli spazi.
Ambrogio Maestri è un Nabucco dalla voce morbida che ben fraseggia ma che mostra poco il lato drammatico del personaggio e in alcuni momenti fatica a tenere l'intonazione (Dio di Giuda, ad esempio). Carlo Colombara è uno Zaccaria convincente e dalla voce di bel colore. Tatiana Melnychenko è una Abigaille con la spada spesso sguainata e la corazza dorata; la voce è robusta e incisiva ma una cura maggiore della dizione avrebbe giovato in una prestazione avara di espressività e poco versata nelle agilità. Straordinario l'Ismaele di Stefano Secco, la voce bella e piena con gli acuti squillanti e luminosi rendono al meglio l'interiorità del personaggio. Corretta e incisiva la Fenena di Anna Malavasi. Con loro sono adeguati Francesco Palmieri (il Gran Sacerdote di Belo), Luca Casalin (Abdallo) e Maria Letizia Grosselli (Anna).
Pubblico numeroso, spettacolo assai lungo e grande successo di pubblico: uno spettacolo nello spettacolo la luna piena sopra l'Arena.