Un Nabucco di innegabile suggestione visiva, al tempo stesso rispettoso della tradizione ed evocativo, sobrio, essenziale, quello andato in scena al Ponchielli di Cremona in questa nuova produzione del Circuito Lirico Lombardo a firma Andrea Cigni. La scenografia, curata da Emanuele Sinisi, è fissa e al tempo stesso mutevole: due grandi moduli collocati su ognuno dei lati, di colore neutro e dalle superfici scabre e ruvide, decorati in guisa di grossi pilastri, si spostano ora verso l’esterno ora verso il centro della scena, provocando mutazioni d’ambiente e di atmosfera in sintonia con l’uso sapiente delle luci, ora fredde, ora calde, ora di taglio, ora frontali, progettate da Fiammetta Baldisseri. Pochi gli altri elementi: un enorme cavallo di legno con ali e armatura sul quale fa la sua comparsa fra le nebbie Nabucco e che, sul finale, diviene simbolo, grazie a un paio di suoi frammenti calati dall’alto, dell’idolo distrutto, un grosso trono blu chiara reminescenza di quegli invetriati lisci così caratteristici dell’arte assiro-babilonese, il fuoco e l’acqua a ricordare la distruzione del tempio. Attenta al dettaglio, ma con misura e senso profondo delle dinamiche teatrali, lungi dal voler a tutti i costi stupire, la regia di Andrea Cigni. Commovente e intima la scena della parte seconda in cui Zaccaria ha quasi un colloquio paterno con un piccolo levita, solenne e ieratico il Va’ pensiero, eseguito dal coristi mentre avanzano lentamente dal fondo, a file serrate, recando un lumino fra le mani. L’attenzione alla psicologia dei personaggi, in continuo scontro fra voler essere e dover essere, vera cifra di lettura di tutto l’allestimento, dà però il meglio di sé nei dialoghi, come quello centrale del terzo quadro fra Nabucco e Abigaille, o negli istanti più introspettivi di un Nabucco prigioniero che spia dalle fessure il cammino di Fenena verso il patibolo.
Nel ruolo del titolo Paolo Gavanelli fornisce un’ottima prova attoriale, la voce appare però un po’ logora e vi sono a tratti cedimenti dell’intonazione; nelle mezze voci e nei momenti di maggior ripiego intimo i risultati sono di grande efficacia, ma nel forte l’emissione è troppo spinta. Tiziana Caruso è una Abigaille fiera, algida, dal contegno nervoso; la timbrica è bella e scura, la potenza del mezzo innegabile, il registro centrale di spessore; l’acuto squilla, sebbene sovente si levi con tratti un po’ taglienti. Enrico Iori interpreta uno Zaccaria poco sonoro, dotato di una vocalità chiara che si sbianca leggermente nella zona superiore e presenta qualche fatica nei gravi. Corretto, ma scarsamente eroico, l’Ismaele di Gabriele Mangione, provvisto di una voce piccola, forse non del tutto adatta per un ruolo verdiano. Buona la Fenena di Raffaella Lupinacci: il timbro è caldo, la linea di canto curata, la tecnica solida. Con loro Antonio Barbagallo (Il Gran Sacerdote di Belo), Giuseppe Distefano (Abdallo), Sharon Zhai (Anna).
A parte qualche leggero scollamento fra buca e palcoscenico e un paio di momenti di eccessivo rallentamento che non hanno agevolato i cantanti, la direzione di Marcello Mottadelli appare decisa, sonora e generosa. Il gesto è nervoso, risoluto e ricerca il giusto afflato eroico nella partitura, pur non trascurando di dare adeguate sottolineature ai momenti di ripiegamento intimo e di riflessione.
Ottima la prova del coro, che nell’opera è personaggio di assoluta rilevanza, accuratamente preparato da Antonio Greco: grande l’attenzione per la ricerca di insieme, l’esecuzione dei pianissimo, lo studio di una dizione precisa delle finali.
Teatro Ponchielli gremito; il pubblico, entusiasta, non ha risparmiato applausi né a scena aperta né a fine spettacolo.