Lirica
NABUCCO

IL MALE DENTRO

IL MALE DENTRO

Le recite di Falstaff alla Scala si intrecciano con quelle di Nabucco: l'ultimo Verdi e il primo, il compositore disincantato e ironico e il giovane dal piglio risorgimentale che agogna l'unità nazionale. La migliore scelta possibile per iniziare a Milano le celebrazioni per la nascita di Verdi è proprio questa: due opere le cui prime esecuzioni sono andate in scena alla Scala, il 9 marzo 1842 Nabucco e il 9 febbraio 1893 Falstaff.

Il regista Daniele Abbado situa l'azione nel Novecento e mostra un popolo pervaso da sensi di colpa, un popolo costretto a lasciare la propria terra, un popolo alla ricerca di una perduta identità. I primi immediati rimandi sono alla Shoah (la giornata della memoria, 27 gennaio, è a ridosso della prima di Nabucco, 1 febbraio), ma non solo e non necessariamente.

La scena di Alison Chitty è uno spazio astratto eppure reale, concreto e comprensibile ma privo di riferimenti geografici e storici. Un luogo di violenza ma anche il luogo della memoria. Due alti muri di mattoni aperti da strette feritoie chiudono i lati del palcoscenico. Unici elementi presenti in scena sono numerosi parallelepipedi di pietra di differenti grandezze, stele di cimitero affittite prive di nomi e scritte che poggiano su una sabbia che affatica il camminare e pian piano inghiotte tutto, restando solo deserto.
I costumi, della stessa Alison Chitty, non differenziano ebrei e babilonesi, soldati e civili, popolo e sovrani: tutti indistinti se non per impercettibili particolari non determinanti.
Questo, che all'inizio sembra essere un limite della regia, invero si rivela poi necessario a dimostrare la tesi di Abbado: il viaggio del popolo ebraico avviene nella memoria, il percorso è un esilio doloroso e mentale che, alla fine, rinsalda l'identità del popolo stesso che ha trovato al proprio interno un nemico, il male, e riesce a sconfiggerlo. Infatti è proprio questo lo snodo fondamentale: quel nemico che non è esterno, non straniero. Il nemico che perseguita non viene da lontano ma si è originato all'interno del popolo. Di quel popolo. Il male dentro. Un male oscuro, da identificare e combattere.  Seppure con qualche inevitabile senso di colpa. Infatti gli idoli riproducono forme umane scheletriche di fil di ferro a evocare recinzioni, costrizioni ma anche la fragilità umana.
Quella sabbia in scena, che nei video in bianco e nero può essere scambiata per neve, quel deserto diviene luogo metaforico della spiritualità e della riflessione, luogo dove, lontano dalla sopraffazione degli stimoli esterni, si cerca sé stessi. Per comprendere. E andare avanti. All'inizio il popolo reca con sé bambini e libri: futuro e passato, speranza e memoria. E la luce del finale è la luce di un risveglio. Consapevole. Il sonno della ragione genera mostri.

Assoluta nudità scenica materizzata dalla sabbia sulle tavole per quel deserto anche dell'anima: l'ambientazione moderna aumenta in modo esponenziale la forza del Va', pensiero. Il coro canta immobile nel vuoto, visto frontalmente e dall'alto diventa una folla impressionante: tutti ammassati al centro iscritti in un cerchio perfettamente geometrico, illuminati da un unico proiettore fisso dall'alto. Non mucchio di animali aggregati, bensì popolo di uomini e donne e bambini impauriti ma (o proprio perché) consapevoli. La parola scorre, il pensiero comune diventa memoria con la speranza di cambiare le cose: un popolo unito e coeso in un percorso per liberarsi dal “male dentro” che lo umilia, come per Verdi umiliato era il popolo italiano dai dominî stranieri mentre agognava la riunificazione e soprattutto la libertà (fa sorridere se non indignare l'ignoranza leghista che lo usa in funzione opposta, contro l'unità nazionale).

Fondamentali i video di Luca Scarzella, che dilatano la scena oltre il fondale mostrando particolari del palcoscenico isolati e ingigantiti come sotto la lente di ingrandimento, oppure visti dall'alto con la sensazione che sia l'occhio di Dio a volgere quello sguardo. Emozionanti i momenti in cui la telecamera indugia tra le stele mentre le luci allungano sinistramente le ombre: l'idea claustrofobica e tangibile della persecuzione e della ricerca delle vittime da parte dei carnefici diventa quasi angosciante per lo spettatore. Come anche i frames dell'ira fatale con l'occhio della telecamera sui corpi abbandonati fra le lapidi.
Perfette le luci di Alessandro Carletti, capaci di creare situazioni reali ma sganciate dallo scorrere delle ore e dei giorni, in grado di immergere alcuni momenti in un buio assai significativo e di ampliare sempre l'emozionalità della musica in linea con le scelte registiche.
I movimenti coreografici di Simona Bucci completano adeguatamente la parte tecnica che risulta assai compatta e coerente. Alla regia ha collaborato Boris Stetka.

Nicola Luisotti dirige con il giusto vigore mediato dall'intelletto che supera ogni retorica d'effetto senza contenuto, al punto che la partitura viene percepita nitidamente nella sua modernità, esaltata dalla resa registica. Alla sinfonia il direttore imprime quell'energia che comunicativa che consente di abbandonare l'idea di mero prologo che annuncia i temi dell'opera: Luisotti enuclea la “sostanza ideale” dell'opera, esaltando il trascorrere degli atti con una potenza fatta di espressività e un lungo arco drammatico che non ha mai cali di tensione. Dunque c'è tutto il primo Verdi con la sua forza tumultuosa e i pieni orchestrali sempre eleganti, ma anche l'umanità dei passaggi delicati che solo un grande interprete trasmette al pubblico (basti citare violoncello e flauto del “Dio di Giuda”).

Leo Nucci è un Nabucco di grande intensità interpretativa, non sempre supportato da corrispondente vocalità: temperamento e personalità forse stavolta non bastano anche se l'adesione all'idea registica di un re da subito stanco e vecchio è ben resa.
Aleksandrs Antonenko è un preciso Ismaele, meno convincente nei passaggi intimi e lirici da giovane innamorato. Vitalij Kowaljow ha bel timbro morbido e materiale vocale notevole improntato su un registro grave molto maturo; il suo Zaccaria è uomo tra gli uomini, ha linee salde e un legato esemplare che si è particolarmente apprezzato nella Preghiera di raccolta solennità. Liudmyla Monastyrska è una Abigailla di grande forza drammatica, che si è apprezzata maggiormente negli aggressivi passaggi tra brama di potere e sete di vendetta; il soprano ha voce ragguardevole che non teme l'acuto e in basso è ben timbrata, una voce in grado di rendere i piano e le repentine salite in acuto con grande naturalezza e omogeneità: la sicurezza espressiva, la facilità di emissione e il controllo nei trilli hanno conquistato il pubblico che le ha tributato un grande successo. Veronica Simeoni è una Fenena intensa, dolce e decisa, sempre scalza in scena. Tatiana Ryaguzova è un'adeguata Anna. Con loro Ernesto Panariello (Gran Sacerdote), Giuseppe Veneziano (Abdallo) e un coro splendido, vero protagonista dell'opera, splendidamente preparato da Bruno Casoni: mai compatto come in questa idea registica, mai compatto come in questa resa scenica e vocale.

Teatro affollato, vivo successo con molti applausi e richieste di bis per il Va', pensiero, non concesso come prevede la consuetudine scaligera.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)