Lirica
NABUCCO

Il trionfo del monoteismo

Il trionfo del monoteismo

L’idea alla base dell’allestimento di Gianfranco de Bosio (1991) è parzialmente vicina a quella che poi verrà ripresa da Denis Krief (mutatis mutandis) coi moduli metallici da noi recensiti tre anni fa. Il tempio di Gerusalemme è impostato su parallelepipedi decorati da linee geometriche che si replicano in profondità e ricordano le architetture futuriste di Sant'Elia; la reggia babilonese è risolta con una ziggurat circolare a più piani rastremati preceduta dagli stessi parallelepipedi di prima ma posizionati dal lato con figure in rilievo, mentre un’ampia scalea raccorda i due piani del palcoscenico. Il rigore delle forme caratterizzerebbe, nelle intenzioni registiche, la cultura monoteista (intesa non solo in senso religioso ma anche civile e sociale, come individualismo ed essenzialità) e si contrapporrebbe alla cultura della pluralità, dominata dalla legge del più forte e da estetismo e ridondanza nelle forme (esemplificate coi capitelli di Persepolis). Ipotesi che lascia dubbi ma che funziona dal punto di vista scenotecnico grazie al lavoro di Rinaldo Olivieri, a cui nel programma di sala è dedicato un ricordo intenso dello stesso de Bosio.

Olivieri scelse per le scene colori impastati di terra: marrone, giallo, bianco canapa, le stesse gradazioni (con dominanza di marroni) utilizzate per i costumi degli ebrei, mentre ai babilonesi, evidentemente per le considerazioni sull’estetismo appena svolte, sono riservati colori accesi e sgargianti, declinati in abiti lunghi, mantelli, fusciacche, copricapi e veli sempre accompagnati da calzature dorate che avvolgono le gambe fino al ginocchio.
Lo spazio del palco rimane vuoto e si allunga su tutta la gradinata (l’anfiteatro romano diventa un vallone naturale roccioso), utilizzato per la gestione di un numero enorme di coristi e comparse: la regia cerca (e trova) l’effetto spettacolare della distribuzione nello spazio, preferendolo all’approfondimento dei caratteri, per cui i protagonisti accompagnano il canto con la gestualità ed i movimenti che il pubblico si aspetta.
Fa piacere vedere la sorpresa di 14.000 spettatori di fronte alle trovate scenotecniche e al finale con la torre che si spacca, fumando come un vulcano che le forme troncoconiche ricordano, laddove la distruzione del tempio di Gerusalemme era risolta staccando carta da parati dalle gradinate e maltrattando donne e bambini.
Si insiste molto sulla presenza della torah quando in scena c’è Zaccaria: il valore della parola come veicolo del pensiero e del volere di Dio. Splendido il momento del Va’ pensiero, con il coro disposto su pedane come sul declivio di una ripa di fiume: fantasmi di quelli che un tempo furono uomini, intabarrati nei mantelli scuri.

Julian Kovatchev dirige morbidamente l’orchestra dell’Arena, non cerca il facile accento bandistico ma non dimentica i toni ed i tempi del primo Verdi e, dove il ritmo non è serrato, è perché si deve adattare alle esigenze del canto. Notevole la prova del coro preparato da Giovanni Andreoli, a cui il pubblico impone il bis del “Va’ pensiero”, cantato con rispetto dei toni intimi nonostante gli spazi areniani (e addirittura nel bis la prestazione migliora grazie al maestro Kovatchev impegnato a curare ogni sussurro).

Ambrogio Maestri è un Nabucco dalla voce morbida, una prestazione notevole non intaccata da qualche defaillance in acuto, perché il baritono ha accenti che evolvono dalla barbarie incosciente alla comprensione della propria umanità e di quella degli altri. Raymond Aceto è un autorevole Zaccaria, omogeneo nei registri e convincente nei toni. Dimitra Theodossiou è sempre  una Abigaille di temperamento e coi passaggi di registro assai fluidi, anche se gli acuti ci sono parsi al limite, meno adamantini del solito. Rubens Pelizzari è un Ismaele con fisique du role, gli attacchi però sono poco precisi e l’acuto non squilla. Corretta ma non incisiva la Fenena di Andrea Ulbrich. Con loro sono adeguati Ziyan Atfeh (il Sacerdote di Belo), Antonello Ceron (Abdallo) e Maria Letizia Grasselli (Anna).

Arena esaurita, grandissimo successo con ripetuti applausi a scena aperta e nel finale.

Visto il
al Arena di Verona (VR)