Lirica
NABUCCO

Le inquietanti visioni di Stefano Poda

Le inquietanti visioni di Stefano Poda

Sarebbe esistito il Nabucco di Verdi senza il Mosè di Rossini? Probabilmente no. E' vero che la prima apparizione del Mosè data al 1818, ma la seconda versione ampliata venne ripetutamente data a Milano tra il 1835 e il 1840 destando sempre notevole favore. Dunque se il Solera occhieggia sicuramente al Tottola per il suo libretto - nell'intreccio ispirato a pagine bibliche, nella distribuzione dei personaggi, nel dispiego di scene corali - il parallelismo tra le due opere riguarda anche l'atteggiamento di Verdi, il quale sicuramente vide il capolavoro rossiniano, e che tese a costruire anche lui un edificio grandioso e solenne, di quella «grandiosità biblica», secondo le sue stesse parole, che caratterizzava il dramma praticamente impostogli dall'impresario Merelli per tirarlo fuori da una crisi esistenziale.

In realtà il terzo titolo verdiano sconta un certo peccato originale, quello che deriva proprio da uno scenario che diluisce la vicenda in una serie di singoli 'siparietti' a volte brevissimi, il che rese non facile realizzare in scena e in musica un buon fluire narrativo. Per dare una mano a Verdi, almeno dal punto di vista registico, in questo suo aspro e claustrofobico allestimento varato a Bassano a fine 2012 e ora ripresentato al Teatro Verdi di Trieste, Stefano Poda ha cercato di risolvere parzialmente il rebus sovrapponendo in qualche modo una scena all'altra: mentre inizia cioè la successiva, i protagonisti della precedente restano ancora presenti per alcune battute, benché fissi nei loro movimenti. Dal punto di vista visivo – scene e costumi portano ancora la sua sigla - Poda adotta poi uno spazio unitario, racchiuso tra alte mura trapassate da fessure che fanno penetrare taglienti fasci di luce, a fendere le tenebre che avvolgono i i personaggi: ebrei e assiri vestiti sono ugualmente vestiti, con camice imbrattate di terra e di sangue. Nessuna distinzione, dunque, perché «buoni e cattivi sono la stessa persona in punti diversi del suo percorso», come chiarisce l'artista trentino nelle note di regia. Niente divise né armi e solo neri soprabiti di pelle per Nabucco, Abigaille, Fenena, Abdallo; unico segno del potere sovrano è quella cartellina di documenti che dalle mani di Nabucco passa in quelle di Abigaille. Fortissima poi, in questa regia ossessiva e cupa, la provocazione visiva delle file di macabri corpi mummificati appesi al soffitto come pipistrelli, a rappresentare – secondo quanto intende Poda - la «immagine speculare di una umanità incarcerata nel proprio involucro...anima nuda e silente di ognuno dei personaggi».

Musicalmente, in questa ripresa triestina la direzione di Giampaolo Bisanti sembrava seguire passo passo questa scabra visione nell'estremo vigore narrativo, nella irruente pulsione ritmica, nelle potenti ondate melodiche, nel fervore dei concertati (eccezionale il momento di «S'appressan gli istanti»); ma lo fa evitando ogni discapito per il fraseggio, l'articolazione dinamica e la finezza dei dettagli ottenuti dall'ottima Orchestra del Verdi, e grazie alla precisione ed alla morbida pienezza del bravo Coro triestino. Straordinario, va da sé, il «Va pensiero», seppure cantato innaturalmente stando tutti distesi per terra, come da istruzioni registiche. 

Passando ai cantanti, parliamo del protagonista, cioè del Nabucco di David Cecconi: figura che resta in qualche modo a metà perché il baritono toscano mostra poca espressività e fantasia nei colori, dipana un fraseggio generico, difetta d'abbandono e morbidezza nei fiati e non riesce a trovare la disciplina scenica utile a conferire rilievo drammatico al suo personaggio. Nella voce di Dimitra Theodossiou, beniamina del pubblico triestino, si vedono rafforzarsi sempre più i limiti del registro superiore, che un tempo erano in parte occultati da una bella e ben controllata colonna di fiato, e compensati da un formidabile registro centrale che però si sta man mano assottigliando; ne usciva dunque una Abigaille dalle linee spezzate, che le sfuggiva sovente di mano e si salvava solo quando veleggiava nei centri, come nel non disprezzabile finale. Ernesto Morillo presentava un Zaccaria – l'altro vero coprotagonista dell'opera – poco imponente per la condotta vocale ondivaga, a tratti oscillante, e poco incisiva. Marina Comparato era una Fenena assai persuasiva, specie nella preghiera del quarto quadro. Mikheil Sheshaberidze tratteggiava un Ismaele concitato e sommario. Piero Toscano, Alessandro D'Acrissa e Lucia Casbarra ricoprivano rispettivamente i ruoli del Gran Sacerdote di Belo, di Abadallo e di Anna.

Recite tutte praticamente esaurite; nel secondo cast figuravano Sergio Bologna, Tiziana Caruso, Michail Ryssov.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)