Dopo il Macbeth inaugurale del febbraio scorso, “griffato” Peter Brook, Bologna prosegue le celebrazioni del bicentenario verdiano con la ripresa del Nabucco messo in scena da Yoshi Oida nel maggio 2006 nella sala del Bibbiena, ripreso, nella circostanza, da Maria Cristina Madau. In entrambi i casi si è parlato di “allestimento orientaleggiante” cercando di istituire un qualche parallelismo tra i due approcci. Parallelismo che non esiste: sul piano qualitativo i due spettacoli sono agli opposti. Peter Brook potrà piacere o non piacere (a noi non tanto, in verità), però è indiscutibile che alla base dei suoi spettacoli vi sia un approccio studiato, che col tempo si è trasformato in un vero e proprio “marchio di fabbrica”: una sorta di teatro formale, rigido e geometrico, ispirato agli stilemi del teatro Nȏ giapponese, caratterizzato da scenografie minimaliste, contrasti tra luci e ombre estremamente marcati, gestualità meccanica. Niente di tutto ciò nell’allestimento di Yoshi Oida, statico e carente di idee (e quelle poche piuttosto discutibili o troppo cervellotiche per essere comprese), aggravato da una direzione attoriale dei cantanti inesistente, del tutto priva di interazioni tra i vari personaggi.
L’esecuzione musicale solo in parte risolleva le sorti dello spettacolo. Michele Mariotti è, a parere di chi scrive, il migliore dei direttori italiani dell’ultima generazione. In questo caso, però, non convince il suo Nabucco cameristico, privo del vigore, dei contrasti e dell’irruenza tipica del primo Verdi. E’ pur vero che una serie di dettagli strumentali emergono con inusitato nitore, ma questo non basta a compensare la mancanza di slancio nella concertazione.
Agli inizi della carriera, Vladimir Stoyanov era un baritono promettente; poi, come spesso accade, non ha saputo rispettare i limiti del proprio strumento, che si è progressivamente indurito e impoverito, anche sul piano tecnico; prova ne siano gli acuti, sfocati e sforzati. Anna Pirozzi avrebbe mezzi interessanti, ma la tecnica di emissione lascia alquanto a desiderare, con acuti striduli e pianissimi mal sostenuti. Dmitry Beloselskiy è uno Zaccaria pallido e scarsamente espressivo, Sergio Escobar un Ismaele che si compiace di esibire acuti vigorosi (più voluminosi che squillanti, in verità) trascurando quelli che dovrebbero essere i suoi compiti principali: cantare e recitare.
Uniche note positive l’eccellente Veronica Simeoni, che attribuisce un insolito rilievo sia vocale che scenico al ruolo di Fenena e il coro preparato da Andrea Faidutti, che sigla l’unico momento musicalmente intenso dello spettacolo: un Va’ pensiero (bissato) che si spegne con un portentoso quanto emozionante filo di voce.