Lirica
NORMA

Alla Fenice la Norma di Mariella Devia

Alla Fenice la Norma di Mariella Devia

Non ci sarebbe stato motivo per ritornare a rivedere questo allestimento di Norma, prodotto a maggio 2015 dalla Fondazione Fenice e dalla Biennale d'Arte, e firmato dall'artista afroamericana Kara Walker, dato che ne abbiamo già parlato ampiamente lo scorso anno (leggi qui), ed in termini non tutti lusinghieri. Comunque, l'insolita ed originale invenzione che la caratterizza è quella di ambientare la vicenda in un'Africa brutalizzata dalle conquiste coloniali: ed ecco quindi i Galli trasformati in colorati guerrieri Masai o Zulù, Oroveso in uno stregone con tanto di pelle di leopardo, Flavio che si presenta in casco, sahariana azzurra e schioppo in spalla, Pollione visto un po' come l'Hamingway di Verdi colline d'Africa. E fin qui potrebbe andar bene, considerato che sia gli abiti sia le invenzioni scenografiche, grazie al felice grafismo illustrativo della Walker, risultano a loro modo attraenti. Però il peccato di fondo di questo spettacolo è che nell'insieme non si avverte una vera strategia registica, l'azione arranca inerte, le idee prendono a girare a vuoto. La noia è ad un passo, va da sé.

Ho detto che non ci sarebbe stato motivo, se non fosse che a distanza di un anno e più il cast è interamente cambiato – direttore compreso – e che nel ruolo del titolo appare una cantante che amiamo molto, cioè Mariella Devia; la quale, pur avendo alle spalle una carriera ormai lunghissima, non pare risentire la fatica degli anni che passano. L'età non è un segreto, sono 68 anni suonati: età in cui i più vivono di ricordi e di premi alla carriera. Questo non vale per il grande soprano ligure, che procede con l'impeto di un panzer e che proprio di recente, accanto alle repliche d'un ruolo a lei perfettamente consono come quello di Violetta Valéry, ha sostenuto anche le impegnative figure donizettiane del Trittico Tudor (Maria Stuarda, Anna Bolena, l'Elisabetta del Devereux); e che l'anno venturo a Valencia intende affrontare la gravosa tessitura di Lucrezia Borgia. Al confronto, Norma con le sue piane melodie sarebbe quasi una passeggiata; se non fosse che il ruolo eponimo cela, come ben si sa, molte pericolose insidie sparse qua e là nella partitura, certamente a lei non ignote. Parte importante, a lungo mancante nel suo carnet, debuttata solo tre anni fa al Comunale di Bologna - come qualche anno prima fece la compianta Dessì - mostrando subito pregi e limiti della sua interpretazione. Un solo limite, in fondo, cioè quello che la sacerdotessa belliniana è la quintessenza del soprano drammatico di agilità, mentre la Devia è, senza se e senza ma, un soprano leggero. Credo ancora il migliore - a dispetto dei dati anagrafici - che si possa incontrare in giro, ma non proprio la configurazione ideale per questa parte, specie nel registro più grave.

Detto questo, passiamo ai pregi, che sono invece tanti, e che rendono straordinaria questa sua performance veneziana. Finissima poesia nell'interpretazione e perfetto scavo psicologico del personaggio, che sbalza potente in tutte la sue complesse sfaccettature: nell'estatica austerità della sacerdotessa, nelle tenerezza delle confidenze amicali, nell'angosciato affetto per i figli, nei drammatici confronti con l'amante infedele, dove mette in campo tutte le armi di una donna innamorata e disperata, tra lusinghe, seduzioni e minacce. E perfetta, autorevole, variegata, la trattazione belcantistica della linea vocale, passando da un «Casta Diva» sospeso in un tempo celestiale, dai fiati eterei e dilatati in argentini arabeschi sonori, ad un «Ah! Bello, a me ritorna», cabaletta dalle fascinose variazioni rese con nobile nonchalance; dalle lunghe arcate di un «Dormono entrambi...Teneri figli» cesellate con ogni tenerezza possibile ad un «Ei tornerà, si» fraseggiato con la neoclassica eleganza d'una scultura del Canova; mentre in «In mia man» trova una forza di penetrazione febbrile e lancinante, sonora come un bronzo antico. Insomma, pur tenuto conto della prima riserva, una Norma seducente vocalmente e tecnicamente autorevolissima, sicuramente una tra le poche veramente memorabili degli ultimi decenni.

Detto questo, passiamo agli altri interpreti. A fianco troviamo un'Adalgisa di tutto rispetto, quella molto virginale, molto espressiva, molto sfumata del mezzosoprano romeno Roxana Constantinescu, capace di tenere testa alla Devia nei loro tête-à-tête, ed un Pollione tutto da dimenticare, quello di Roberto Aronica. Un proconsole greve, debordante e condotto con malagrazia sia in «Meco all'altar di Venere», vero incipit drammatico trattato come viene viene, sia  nel duetto «Va crudele», tutto testosterone e bellico furore. Solo nel Finale, con un «Ah! Troppo tardi» di discreto accento e verosimiglianza drammatica, pare rientrare nei ranghi, e porta in qualche modo la barca in porto. L'Oroveso di Simon Lim non passa oltre la sufficienza; assai appropriata la Clotilde di Anna Bordignon, così così il Flavio di Antonello Ceron.

La direzione di Daniele Callegari non esula dall'ambito della buona e diligente condotta; abbastanza attenta cioè al fatto musicale in sé, molto meno alla vitalità dell'opera. Quanto a precisione e nettezza, orchestra e coro della Fenice non sono all'altezza del solito standard: non so se per difetto di prove, non so se per colpa degli ozi della pausa estiva, fatto sta che in entrambi spunta qui e là qualche spiacevole défaillance.

(foto di Michele Crosera)

 

Visto il 27-08-2016
al La Fenice di Venezia (VE)