Mettere in bando i quattro ruoli principali della Norma belliniana, come ha fatto il Concorso “Toti Dal Monte” 2016 sperando - con i chiari di luna che ci ritroviamo - di scoprire tra i candidati un buon tenore, era in partenza un'impresa forse troppo speranzosa. E difatti è stato reperito - bene o male - un vincitore per i ruoli della protagonista, e per quello di Adalgisa (con voce di soprano, benissimo) e di Oroveso, ma neppure l'ombra di un Pollione.
Di qui la necessità di convocare per questa parte dalla rara tessitura da baritenore – parte che fu del celebre Donzelli, e che vuole timbro corposo, canto virile con acuti solidi e squillanti, nobile fierezza nel declamato, eleganza di fraseggio – un cantante pur sempre giovane, certo, visto il contesto, ma già un po' esperto; e se possibile, anche stilisticamente pertinente. Cosa certo difficile, ma non del tutto impossibile.
Chiamare invece a ricoprire questo ruolo così particolare uno sconosciuto e giovanissimo tenore, costituirebbe di per sé già un grosso rischio. Poteva essere una rivelazione, la scoperta di un talento emergente, magari. Però così non è stato: perché il 22enne Nelson Ebo si è mostrato tecnicamente alle prime armi, impacciato in scena, ed evidentemente ignaro di cosa sia il belcanto. Anzi, a conti fatti questo ragazzo angolano non pare abbia al momento neppure la piena consapevolezza di cosa sia il canto lirico tout court; e se pur se qualche qualità naturale sotto sotto la si intravede, l'immaturità non gli permette d'essere all'altezza del compito affidatogli con così temeraria fiducia.
Per buona fortuna, meglio è andata con gli altri tre interpreti usciti dall'ultimo concorso trevigiano. La temibilissima figura di Norma è stata appannaggio del soprano Roberta Mantegna, classe 1988, la quale ha iniziato da piccola a cantare con le voci bianche del Massimo di Palermo, la sua città. Indubbia la spontanea musicalità, un notevole temperamento ed una ragguardevole preparazione tecnica che, unitamente ad una bella qualità di voce, massiccia nella colonna di fiato e dai riflessi tendenti al bronzeo, rendono promettente una Norma che alla prova del fuoco ci ha indubbiamente convinto, pur auspicando una maggiore messa a fuoco. Resterebbe un solo, piccolo neo: a fronte del pieno dominio d'un bel registro centrale – che ben si esprime nelle calde arcate melodiche di «Casta Diva», nello struggimento materno di «Dormono entrambi», nella torva passione del duetto «In mia man» – si avvertono una leggera nasalità e qualche asprezza nella salita al registro acuto, evidenti per esempio nell'irrisolta cabaletta «Fine al rito...Ah bello a me ritorna».
Altro talento precoce quello di Yulia Gorgula, giunta da San Pietroburgo ad indossare la candida veste di Adalgisa: anche a lei non è ignoto cosa sia il repertorio belcantistico, esprimendosi con notevoli doti vocali, naturale dolcezza timbrica e proprietà di espressione. L'emissione è talora un po' esile – mentre la parte fu pensata da Bellini per la Giulia Grisi, interprete di notevole spessore - buona comunque per un ruolo virginale; ma il soprano russo con ogni evidenza non sa distribuire bene le proprie forze nel corso della recita – inconveniente dovuto all'inesperienza – e stenta a reggere la tessitura più alta sino al do. Viene bene a capo del duetto con Pollione (ovviamente stravinto in partenza, viste le premesse); regge assai meno i confronti ben più temibili – vocalmente parlando - con la matura rivale, e mostra qualche empasse pure nel febbricitante terzetto messo a chiusura del primo atto.
Ucraino è il 24enne basso Volodymyr Tyshkov: tipo di basso profondo, dal suono vigoroso e pieno, maestoso in scena, com'è frequente trovare in terre slave. Inevitabile, per una individualità ancora in formazione – e si sa che i bassi danno il loro meglio dopo i trent'anni - qualche seccante spigolosità nell'emissione; limite evidente sopra tutto nella distesa cantabilità di «Ah! Del Tebro al giogo indegno», pagina resa purtroppo con qualche malagrazia. Completavano con buona efficienza il cast la Clotilde di Valentina Corò e il Flavio di Eder Vincenzi.
La direzione di Sergio Alapont – in buca l'Orchestra Città di Ferrara – si limitava a condurre in porto la barca, senza esibire particolari pregi; sopra tutto, non riusciva cioè al giovane maestro spagnolo l'impresa di costruire un'insieme drammaturgicamente e musicalmente convincente, mancando un coerente filo narrativo ed il senso delle proporzioni tra episodio ed episodio. Anche la prestazione del Coro Ensamble Vocale Continuum diretto da Luigi Azzalini non usciva dal cerchio della mediocrità.
I fondali di questa Norma trevigiana sono gli stessi della prima milanese del 1831, cioè quelli del grande scenografo milanese Alessandro Sanquirico, detto un tempo “il Rossini della pittura scenica”. Molto belli, ma anche molto datati pur ragionando in uno spirito di recupero filologico. La modesta regia di Alessandro Londei, che impone agli interpreti una gestualità ieratica e spesso alquanto stucchevole, non porta avanti grandi idee, limitandosi a viaggiare sui soliti, sperimentati binari; si inventa però la disturbante presenza di alcuni mimi che razzolano selvaggiamente per la scena, oscuri demoni (i recessi pensieri di Norma, forse?) a mezzo tra cane e scimmia. Di non comune bellezza, e molto accurati nella realizzazione i costumi disegnati da Veronica Patuelli, che ben s'inseriscono tra le storiche quinte del Sanquirico. Indovinato anche il succedersi delle luci realizzate da Roberto Gritti.
L'allestimento di quest'opera è stato coprodotto con il Teatro Comunale di Ferrara, dove andrà in scena l'anno prossimo.
(immagii Foto Piccinni Treviso)