Macerata, arena Sferisterio, “Norma”, di Vincenzo Bellini
NORMA E I TIBETANI
Massimo Gasparon, regista, scenografo e costumista, si è ispirato ai maceratesi Padre Matteo Ricci e Giuseppe Tucci, i quali (il primo nel Rinascimento, il secondo nel secolo scorso), partendo da Macerata, si recarono nelle lontane terre asiatiche, in un confronto dialettico importante tra estremo oriente ed occidente. Così ha proposto una Norma inconsueta, in cui i druidi sono tibetani, mentre gli antichi romani rimangono tali. Si sarebbe forse apprezzato di più il contrasto, attualissimo, tra oriente ed occidente (metaforicamente tra un mondo più spirituale ed in sintonia con la natura ed un mondo votato al consumismo più esasperato) se i romani fossero stati vestiti in abiti contemporanei invece che nelle pur belle corazze lilla con coda di seta in tinta. I pacifici e meditativi tibetani, comandati da un Oroveso - Dalai Lama, che gridano “guerra, guerra” appaiono poco credibili nell'immaginario collettivo (ma i loro monasteri sono fortificati), nella piacevolezza dell'effetto scenico.
La scenografia rimane pressochè la stessa del Macbeth (una buona scelta, non solo per contenere i costi quanto soprattutto per uniformare il progetto comune che lega le tre opere in arena) con minimi cambiamenti: otto colonne sopra le pedane in discesa (si continua a salire e scendere: è il gioco del potere), un tetrapilo al centro sopra una scalea profilata da greche continue dorate. I costumi hanno pochi e terragni colori, per riservare alla protagonista il bianco virginale, l'azzurro fiducioso, il nero vendicativo e il rosso passionale, i colori cambiano ma la foggia dell'abito è la stessa. I monaci hanno grandi creste sul capo, bastoni piumati e grandi borchie sul petto a forma di croce uncinata. D'effetto le coreografie delle braccia in sequenza che ricordano la sanguinaria Kalì, mentre al grande muro sono appesi i simboli pacifici di yin e yang e della cosiddetta svastica (chi ha viaggiato non può dimenticare i Buddha con la svastica sul petto o i mosaici antici e le decorazioni con le svastiche nell'area centroasiatica).
Norma non ha un vero e proprio impianto drammaturgico, così Gasparon sottolinea il canto con pochi e misurati gesti per poi riempire il lungo palcoscenico con monocrome e suggestive sfilate di monaci, sotto le luci sapienti di Sergio Rossi. Il tutto è rarefatto, forse troppo: quando Norma scopre il tradimento della sua sacerdotessa con il padre dei suoi figli rimane immobile, le braccia lungo il corpo. Azzeccati e d'atmosfera i movimenti rallentati delle comparse e l'affascinante disposizione sulle lunghe pedane dei coristi.
Il cast annovera la cantante migliore che si sia ascoltata quest'anno a Macerata: Daniela Barcellona. Premetto che preferisco la versione originale di Bellini, quella in cui il ruolo di Adalgisa è affidato a un soprano di voce chiara e leggera (a partire dalla metà dell'Ottocento si è imposta la tradizione delle voci brunite per un ruolo che invece è da ragazzina innamorata). La Barcellona disegna una Adalgisa imponente, ma con un animo tenero, ingenua e capace di forti sentimenti: l'amore per Pollione (che forse l'ha ingannata?), la fedeltà per Norma (che lei ha ingannato?). La voce è bella come poche: uno splendido colore scuro vellutato, nessuna fatica nell'acuto che risuona limpido, una voce che riesce ad ammantarsi di sfumature diverse, esprimendo ogni singolo palpito del cuore, una voce che indaga ogni piega dell'anima, scavata con lucidità ed abilità estreme. Molto generosa, la Barcellona è in grado senza difficoltà apparenti di passare dai ruoli maschili en travestì (la sua specialità, come dimenticare il rossiniano Tancredi e “Di tanti palpiti” che nulla toglie alla versione leggendaria di Marilyn Horne, da ultimo al Comunale di Firenze nell'ottobre 2005, la celebre regia di Pizzi riallestita per l'occasione da Gasparon) a una strepitosa, ironica Rosina (Comunale di Firenze, ottobre 2006) a questo ruolo sofferto e drammatico.
Dimitra Theodossiou è esperta nel ruolo del titolo e la sua è una voce d'acciaio, salda e forte; i registri sono completi ed ha facilità estrema nel salire su acuti svettanti nelle impervietà; ha grande calore nelle mezze voci, pur lasciando qualche dubbio per qualche lentezza di troppo. Il celeberrimo Casta diva risuona tra le mura dello Sferisterio mentre una falce di luna sale nel cielo (Pizzi l'avrà previsto o si tratta di una fortunata coincidenza? Certo che l'anno prossimo anche la straussiana Salome ha un rapporto stretto con la luna..). Le unghie laccate di nero danno al personaggio una tinta fosca e il costume vagamente neoclassico le conferisce una notevole ieraticità, esaltata dalla sacralità della gestualità.
Carlo Ventre è Pollione con qualche difficoltà (un'oscillazione troppo ampia del vibrato, l'inizio poco convincente, poi si scalda e migliora) e con un piede fratturato; Simon Orfila un Oroveso dalla voce troppo chiara per il ruolo, che risulta non autorevole pur nella corretta linea di canto. Con loro l'aspra Clotilde di Roberta Minnucci e il Flavio di Giancarlo Pavan.
Il Maestro Paolo Arrivabeni ha dovuto uniformare la buca con il palco e spesso ha troppo allargato i tempi, risultando l'esecuzione lenta, cosa che invece non è accaduto nella sinfonia, eseguita con giusti tempi serrati. Coro ordinato, preparato da David Crescenzi; precisi i mimi, su tutti i graziosi figli di Norma vestiti come piccoli Dalai Lama; adeguata la banda Salvadei, che ha suonato in palcoscenico.
Teatro tutto esaurito, come nelle prossime repliche (ma non nella versione concertante in programma nel suggestivo anfiteatro romano di Urbisaglia); alla fine applausi convinti per tutti.
Visto a Macerata, arena Sferisterio, il 28 luglio 2007
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Arena Sferisterio
di Macerata
(MC)