Dopo una tournée in vari teatri europei, e dopo essere stata presentata nell'ottobre scorso a Piacenza, la Norma nella rilettura scenica di Nicola Berloffa ha raggiunto le tavole del Teatro Regio di Parma.
Quattro recite, quattro pienoni, anche perché il capolavoro belliniano mancava qui da vent'anni. Poco, in fondo, al confronto dei quattro e passa decenni attuali di assenza di questo titolo dalla Scala milanese.
Niente fronde di querce sacre
Il regista piemontese traspone la vicenda, con l'ausilio della iperclassica scenografia di Andrea Belli e dei bellissimi costumi di Valeria Donata Bettella, dalle fosche foreste galliche al vasto cortile d'un nobile palazzo. Siamo in clima di guerra, siamo in pieno '800. Epoca di oppressioni straniere e di insurrezioni popolari, di rivendicazioni d'indipendenza e di grandi manovre politiche: dunque quanto a coerenza drammaturgica, in fondo, ci siamo.
Sul fatto poi l'idea in sé non sia affatto nuova – il primo precedente che viene in mente è l'Aroldo di Pier Luigi Pizzi – potremmo passar sopra; ma colpisce in negativo una regia nell'insieme a tratti statica, e poco coinvolgente, che non sempre cura a dovere le interazioni tra i personaggi. E non crediamo sia colpa solo delle misure anti-Covid invocate nelle note di sala, oggi in gran parte superate.
Il grave è che a parte qualche idea buttata là – vedi il giovane caduto preparato da pie dame per la sepoltura – molto altro non si vede, ed i personaggi si muovono sovente nell'inerzia generale. Finendo anzi un po' nel ridicolo, allorché un manipolo di soldati sciancati – dovrebbe essere il coro dei feroci Galli - agita le sue stampelle invocando a gran voce “Guerra, guerra!”.
Un buon direttore, una protagonista adeguata
Buon per noi che dal lato musicale le recite parmensi abbiano offerto grandi, indiscutibili soddisfazioni. Abbiamo apprezzato la scattante concertazione di Sesto Quatrini, incanalata sulla scelta di tempi d'andatura toscaniniana, volti ad imprimere impellente teatralità.
Parca ma significativa la sua gestualità – cosa rara – prestando nondimeno costante ed occhiuta attenzione alla buca, dove è ospite l'Orchestra Filarmonica Italiana; e massima sollecitudine verso il palcoscenico, indicando costantemente gli attacchi. Sostegno quanto mai provvidenziale, ma che non sempre vediamo nascere dal podio. Notiamo infine come il maestro romano riapra certi tagli di tradizione, ed è un bene; ma ci nega i da capo delle cabalette, ed è meno bene.
La tessitura prevalentemente centrale di Norma ben s'addice ad Angela Meade, offrendo così una prova senz'altro lodevole, tanto che la sala non le lesina calorosi consensi. Il prodigo organo vocale è ben sostenuto da una linea di canto sapiente e dosata, luminosa, energica e morbida nel contempo, soave e tenera nei filati. A voler essere pignolini, però con qualche piccolo limite: talvolta eccede in pose da gran diva d'antan, qualche suono grave risuona poitriné, qualche acuto manca un po' di nitore.
A conti fatti, comunque, il soprano statunitense porge nell'insieme una Norma molto prossima all'ideale. Diciamo a metà strada fra la lacerata intensità della Callas e la siderea vocalità della Sutherland.
Un cast con i fiocchi, in tutti i suoi componenti
Comunque, nell'insieme tutto il cast parmense offre quanto di meglio oggi si possa desiderare. Carmela Remigio è un'Adalgisa dolce e vellutata, dotata di un fraseggio esemplare, psicologicamente scavata a fondo e di grande comunicatività. Forse un tantino nevrotica, questo sì, ma ci può stare. E poi apprezziamo si sia scelto un soprano, come il ruolo originariamente richiedeva. Non sfugge però, all'orecchio attento, che nei tête-à-tête con la rivale si avverta qualche comune discrasia, dovuta forse a rodaggio non sufficiente.
Stefan Pop è un prestigioso Pollione, sia sul versante interpretativo – centrato appieno il carattere del volubile condottiero - sia su quello strettamente vocale: per volume di suono, bellezza timbrica, accento aristocratico, buon gioco di chiaroscuri, fierezza nel declamato il suo romano vince e stravince.
Carismatico e imponente, musicalissimo, nobilmente sfumato – il fraseggio è, come al solito, assolutamente esemplare - e ricco di interiorità l'Oroveso che ci porge Michele Pertusi. A lui la divisa da orgoglioso generale poi calza benissimo, meglio che la solita tunica da druido. Irreprensibili il Flavio di John Matthew Myers e la Clotilde di Mariangela Marini. Ed ineccepibile l'impegno profuso dal Coro del Regio, guidato da Martino Faggiani.
Abbiamo assistito alla quarta recita, segnata come le altre da un gratificante successo di pubblico.