Lirica
NORMA

QUANDO L'ORCHESTRA RESPIRA CON LE VOCI

QUANDO L'ORCHESTRA RESPIRA CON LE VOCI

Norma  è  un’opera per primedonne, associata nell’immaginario a mitiche figure del belcanto che per prime interpretarono il ruolo della sacerdotessa dei druidi (Giuditta Pasta, Maria Malibran, Giulia Grisi), ma anche a “mostri sacri” che ne hanno fissato dei canoni interpretativi e vocali per certi versi irraggiungibili: Maria Callas, Joan Sutherland, Montserrat Caballé. Ma è anche un’opera in cui farsi cullare dalla magia delle lunghe linee melodiche belliniane, semplici ed elaborate al tempo stesso ed è  proprio nella straordinaria  lunghezza delle melodie che sta il fascino della musica di Bellini che trovò estimatori anche in Wagner, che proprio a Norma volse l’attenzione durante la composizione del Tristano e Isotta.

L’allestimento in scena a Torino, già visto al Regio una decina d’anni fa e rappresentato su diversi palcoscenici italiani, è un po’ datato rispetto alle attuali tendenze registiche, ma risulta comunque funzionale per un’opera più di ogni altra incentrata sul canto.
William Orlandi abbozza una Gallia rupestre e notturna, caratterizzata da quinte mobili costituite da pietre scistose dai profili irregolari che nel corso dello spettacolo inquadrano diversamente il fondo della scena mostrando cieli all’imbrunire, vestigia romane, boschetti notturni. In una rappresentazione didascalica non mancano la luna e il grande dolmen al centro dove si concentra buona parte dell’azione drammatica e che inevitabilmente fa convergere gli sguardi dello spettatore sulla protagonista.
L’uso così marcato della pietra evoca un mondo barbarico e ancestrale e l’atmosfera nordica è sottolineata da cromie fredde e azzurrine che si accendono poi di squarci rosso fuoco per dare rilievo ai drammi individuali e alle passioni.
I costumi, se pur con qualche eccesso kitsch nell’uso di pelli, fibbie e scudi, marcano l’opposizione fra barbari e romani e la rossa veste di Norma, sontuosa e neoclassica come è Norma nel nostro immaginario, si oppone al bianco virginale di Adalgisa.
Il movimento delle quinte è funzionale all’entrata in scena di coro e  personaggi nel rispetto della divisione delle scene e consente una precisa disposizione delle  masse, che, se pur improntata a un eccesso di simmetria, contribuisce a una visione armonica in sintonia con il  discorso musicale neoclassico.
La regia di Alberto Fassino, ripresa da Vittorio Borrelli, è impostata su di una gestualità stilizzata e composta, quasi scolpita, per dare pieno risalto a una tragedia che si consuma nel canto e nella declamazione della parole. Un apporto registico di segno neutro, che non distoglie l’attenzione dal canto, ma non aggiunge nulla a quanto esposto dalla musica.

In questo caso è proprio  l’esecuzione musicale e la direzione di Michele Mariotti il punto di forza dell’allestimento. Se pur per la prima volta alle prese con la partitura di Norma, il giovane direttore pesarese  è nel suo terreno d’elezione e la sua lettura emana sensibilità e naturalezza. Mariotti  valorizza la trama dello strumentale, sia nella sinfonia d’apertura che nel preludio al secondo atto, dove il gioco di spessori e colori orchestrali anticipa lo stato psicologico della protagonista, ma soprattutto consegue una perfetta quanto difficile intesa fra canto e strumentale.
L’orchestra sembra davvero respirare con le voci, ne prepara gli attacchi, le sostiene, ne favorisce  con grande morbidezza  il trascolorare di accenti e la “lunga lunga melodia belliniana“ (citiamo Verdi) si dipana nei suoi melismi senza cesure, trovando un fondamentale appoggio nel tessuto orchestrale. La lettura di Mariotti è elegiaca, introspettiva, sfumata, ma mai noiosa, dalle dinamiche calibrate e avvincenti.

Dimitra Theodossiou  risolve il ruolo con sicurezza, forte di una tecnica salda e di una approfondita frequentazione con il belcanto e la sua è un’esecuzione in crescendo dal punto di vista drammatico ed interpretativo; il suo “Casta Diva” etereo e sfumato convince per la bellezza della linea e dei pianissimi incantatori, ma risulta un po’ monotono sul piano espressivo; la cantante trova però pieno coinvolgimento quando sposta l’attenzione dalla sacerdotessa alla madre e “Dormono entrambi” è un momento in cui pathos e belcanto hanno lo stesso peso; equilibrati e sintonici i duetti con Adalgisa, meno sorvegliati gli acuti, oltremodo svettanti ma non sempre sotto controllo, soprattutto nel confronto con Pollione.
Kate Aldrich è un’Adalgisa di virginale bellezza e ha voce importante, morbida e ben emessa, ma la sua interpretazione, se pur di notevole musicalità, manca di quel pathos palpitante che fa scattare l’emozione. Di Marco Berti apprezziamo la voce salda, la bellezza timbrica, la  lucentezza degli acuti e il suo Pollione è trascinante, virile e autenticamente appassionato; trattandosi di un debutto nel ruolo, il personaggio va ancora rifinito per quanto riguarda l’accento e la linea melodica belliniana. Giacomo Prestia è un Oroveso particolarmente autorevole per  l’imponente presenza scenica e il giusto peso vocale e gli perdoniamo  qualche limite d’intonazione nei momenti più spinti. Completano adeguatamente  il cast il Flavio leggero di Gianluca Floris e la Clotilde di Rachel Hauge.
Un plauso al coro preparato da Claudio Fenoglio in perfetta sintonia con solisti e orchestra.

Non ci stancheremo mai di ripetere come uno degli aspetti di eccellenza del Regio di Torino sia anche determinato dal suo pubblico: sempre numeroso, attento, straordinariamente partecipe.

Visto il
al Regio di Torino (TO)