"Surreale, ma bello”: era la frase cult del film. Qui il secondo aggettivo va rimpiazzato, però senza infierire. Si potrebbe optare per un “Surreale, ma decoroso” oppure per un “Decoroso, ma surreale”. Meglio quest’ultimo, in effetti. Surreale perché è tutto tale e quale al film, esclusi i protagonisti. A parte alcuni ovvi tagli logistici, la trama è identica. Spettacolo-replica, davvero : stessi personaggi, stessi nomi, stesso posto (eh beh, Notting Hill è Notting Hill, non potevano certo chiamarlo “Camden Town”). Pure le stesse battute. L’unico filo di novità è il cambio del nome della rivista per cui William finge di scrivere che, dallo strepitoso e indimenticabile “Cavalli e Segugi”, diventa il più cacofonico “Nitriti e Latrati”. Cambio infelice, perché era una delle poche cose da mantenere.
Il film, del 1999, aveva fatto battere i cuoi ai romantici e ai sognatori, oltre che arricchire Ronan Keating con le supervendite del singolo “When You Say Nothing At All” . A Natale i multisala erano zeppi di fanciulle che trascinavano ingrugnati fidanzati, i quali cedevano malvolentieri sul “Guerre Stellari” proiettato nella sala accanto. Un successone e ancora un evergreen. Celebre la trama: la star del cinema hollywoodiano s’innamora dello sfigato libraio di Londra e, tra mille casini, alla fine l’amore trionfa. La “lei” originale era Julia Roberts (peraltro nemmeno al suo film migliore); lui era quell’adorabile tirabaci di Hugh Grant. Sul palco ora ci sono Anna Falchi e Marco Bonini, alle prese con un testo easy ma comunque stra-noto e quindi, molto attaccabile. Il risultato è, come detto, decoroso. Si ride, ma si ride sulle battute del film e sugli allori dell’originale; si sta con l’occhio puntato sulla Falchi, alla malefica ricerca dell’errore per poterla poi massacrare; ci si aspetta, però, un qualche volo pindarico del regista, qualche novità messa a sorpresa per stupire gli astanti. Zero. E’ un clone della pellicola, punto e basta. Niente di speciale le scenografie, di Giancarlo Muselli: tante, ma abbastanza povere, oltre che orchestrate maluccio.
I protagonisti. Il divario con la Roberts e Grant? Non scherziamo. Non è quantificabile. Ma piccolo chapeau alla Falchi che, pur nei suoi limiti recitativi, dimostra un netto salto di qualità rispetto ai tempi di “Se devi dire una bugia dilla grossa”, dove era solo una bionda in bikini. La dizione è notevolmente migliorata e l’inizio è discreto: ricalca il taglio dato dalla Roberts al personaggio (sempre eretta, movenza semi-fissa, pochi sorrisi, voce pacata). Poi però fuoriesce spesso l’Anna Falchi: più cinetica, voce più squillante, più sorrisi, più... “Anna Falchi”.
Marco Bonini, l’ex tassinaro di “Commesse”, è un po’ la nota dolente. E spiace, perché ha un buono score in altri lavori, ma l’accento romanissimo è più dei Cesaroni della Garbatella che di un libraio inglese, tanto che ti chiedi cosa ci volesse a scegliere un attore dalla dizione pulita. Ricorda Hugh Grant solo nella postura e nelle movenze (oltre che per la camicia): mano sui fianchi, schiena in avanti, braccio confuso dietro la nuca. Qui è bravissimo e si vede che se l’è studiata, ma la personalità del personaggio di William va persa e non esce nemmeno a tratti.
Chi l’ha vinta sono invece i due sfasati della banda: Spike, il coinquilino eccentrico (l’originale era un magnifico Rhys Ifans!) e Martin, il distratto e gaffeur socio di William. I due alter-ego teatrali, rispettivamente Alessandro Marrapodi e Gabriele Sabatini sono veramente all’altezza. Ma, in fondo, il giullare paga sempre.
Visto il
al
Alfieri
di Torino
(TO)