C'è ancora luce in sala, ma già si sentono voci confuse. Si apre il sipario, le voci si dissolvono, una donna fuma sulle scale di casa, arredamento medio-borghese. Penombra, sottana nera, lente boccate di fumo. Suo marito, Michele, appena docciato, la invita a piegarsi per soddisfarlo; Adriana lo rifiuta, quindi prepara il caffè per il suo turno di guardia notturno. Clima leggero, ma Michele va via e Adriana resta sola, la casa ridiventa il deserto di tutte le notti, i bimbi dormono di là dalla porta del piano di sopra, non li vedremo mai. Telefona alla mamma, tv, pubblicità, lava a terra, mal di schiena, sigaretta e... di nuovo torpore, desolazione.
Improvvisamente una donna ferita irrompe in casa: Rosanna, la sua vecchia compagna di banco! Arriva anche il marito, Arturo, belloccio del nord, che comincia a lusingare Adriana, poi Michele, di nuovo qui? Perchè? E perchè non si infuria nel vederli avvinghiati l'un l'altro? Comincia un gioco di scambi che si complica con l'arrivo di Sergio, attaule amante di Rosanna, un tempo amato da Adriana. La casa s'è animata, "mi sembra di stare in un film!", ma la spaghettata cede il posto al poker da cui Adriana resta esclusa. In poltrona, con l'album di foto dei figli: l'antica solitudine, penombra, il passato si mischia al presente, l'immaginazione alla realtà. Riappare lo spettro del padre, col suo gioco ambiguo: tiene in braccio la figlia e la solletica con dita maschie. E riappare la madre, più giovane, che la chiama "zoccola", la espone al pubblico ludibrio durante una grottesca iniezione. Il passato (la madre e il padre si materializzano più volte) e il presente (il poker, la sbronza, il party, il pericolo di svegliare i bambini) si fondono in un'unico vortice. Adriana va fuori controllo, fino all'atto estremo: l'assassinio dei figli. Che la vicenda sia tutta nella testa di lei lo capiamo quando il Michele reale torna e la scopre imbrattata col sangue dei figli, novella Medea che pedala sul loro triciclo. Adriana è vestita da sposa nel finale del domestico thriller, e la regia esplode in evocazioni da incubo: il rosso sul bianco nuziale ricorda Macbeth di Polanski, quel triciclo Shining di Kubrick, il coltello e la parrucca della mamma, nella cui andatura Adriana s'identifica, Psycho di Hitchcock.
Regia estrosa di Enrico Maria Lamanna: sa divertire nel primo atto quanto angosciare nel secondo, mentre la scenografia di Roberto Ricci, realistica e dettagliata, è capace di articolare bene lo spazio nei piani immaginario e reale. Puntuali le luci di Stefano Pirandello, segni affidabili del discrimine tra i livelli narrativo-psicologici, e musiche (di Carlo De Nonno) che creano bene le atmosfere: lo squallore quotidiano coi miti pop anni '80, la suspence da thriller coi bordoni originali. I costumi di Teresa Acone colorano la scena delle tinte richieste dalla violenza del caso. Ne risulta un impianto organico, dove Annibale Ruccello viene restituito valorizzato, e gli attori possono esprimersi con energia. Peccato solo non godere delle loro voci pure: i microfoni (spesso mal nascosti) più che amplificarle, ne distorcono i timbri, le grane, le sfumature umane, e creano una barriera mediatica tantomeno indovinata in quanto uno dei temi di Ruccello è proprio la critica ai media attraverso la crudezza di cui solo il teatro (ma quello delle voci spinte) è capace. Vigorosi ma a tratti un po' esteriori risultano Luigi Iacuzio, Andrea De Venuti e soprattutto Mimmo Esposito, che ostenta con sicurezza il personaggio, ma con qualche grido di troppo ed alcuni gesti un po' enfatici. Convincenti Rosaria De Cicco, perfetta reincarnazione dell'amica-serpe, e Gino Curcione, maestro di comicità napoletana. Superba Giuliana De Sio, comicissima in scene come la sbronza, sempre padrona del corpo-voce, sublime dove l'incubo psicotico dell'adulta malcresciuta erompe nell'irreparabilità tragica di un'innocenza perduta.