Lirica
OBERTO CONTE DI SAN BONIFACIO

OBERTO CONTE DI GOMORRA

OBERTO CONTE DI GOMORRA

Oberto conte di San Bonifacio, prima opera di Verdi, debuttò alla Scala il 17 novembre 1839 per essere ripresa l'anno dopo e (solo) nel 1951 e nel 2002 nell'allestimento dello Sferisterio di Macerata poi ripreso a Busseto nel 2007. A Milano era dunque obbligatorio mettere in cartellone una nuova produzione di quest'opera che, segnando il punto di partenza di un compositore che arriverà non giovanissimo all'acmè della scrittura, consente di leggere con sguardo più consapevole quella scrittura. Infatti Pierluigi Petrobelli parla dei “presentimenti di una stagione” nel suo saggio nel programma di sala, accompagnato da dipinti sulla Milano dell'epoca di grande fascino e interesse.

Mario Martone ha immerso l'opera in un contesto camorristico contemporaneo in cui il medioevo si fa epoca attuale nella ferocia, nelle “guerre tra bande in cui le alleanze nascono sui tradimenti”, nel “sanguinoso senso dell'onore come schermo della violenza maschile che le donne subiscono o combattono ad armi impari”.
Sergio Tramonti, fresco vincitore del premio Abbiati, ha creato una scena (quasi) fissa, splendida. L'ambientazione è l'interno di una villa di pacchiana, sfacciata, volgare eleganza, anzi più precisamente sfoggio di ricchezza da parte di arricchiti in modo esagerato e recente. Da un ingresso-salone una scala raggiunge un ballatoio che consente l'accesso ad altre stanze, sostenuto da colonne ioniche con fusti neri, capitelli dorati, stilobati bianchi. Pareti rosse con specchi, pavimenti di candido marmo con passerelle rosse, uno zoccolo di marmo bianco e grigio nella parte inferiore delle pareti. Cornici dorate, ringhiere dorate, mobilio dorato e nero lucido. Sullo sfondo una periferia urbana degradata: palazzoni, muri sbreccati, canneti, una carcassa di automobile incendiata, gru. Il pavimento è cementizio, striato di residui oleosi. Il cielo è grigio, immobile, con squarci di sereno appena accennati.
Per ambientare l'esterno la villa scivola verso sinistra e lascia il posto a uno squallido e degradato piazzale, rivelando il lato della villa non finito: si replica il vezzo delle colonne sovrapposte che sostengono un  terrazzino ma qui i fusti sono cilindri di cemento grigio senza capitello né stilobate e la ringhiera è sostituita da un provvisorio fil di ferro. Dettagli che aumentano la teatralità finta e posticcia dell'interno qual è metaforicamente quel sistema di vita.
Non manca il riferimento a una religiosità concepita come collante familiare e modalità di controllo dei sottoposti: un'edicola votiva è presente all'ingresso dalla parte del giardino a cui sono attaccati numerosi ex voto che sembrano fare il paio con le foto di famiglia sul tavolinetto del salotto.
I costumi di Ursula Patzak perfezionano il collocamento spazio-temporale dell'azione, insistendo su particolari vistosi e kitsch. L'ouverture trova il sipario aperto e l'ambiente vuoto con la luce che filtra dall'alto: il salone presto si riempie di persone: fucili, droga, soldi, alcolici, corpi privi di vita e corpi pieni di vita artificiale sostenuta in modo forzato. Una messa in scena efficace e bella a vedersi, grazie anche alle giuste luci di Marco Filibeck dal progetto di Pasquale Mari, perfette nel finale con la berlina che reca nel portabagagli il cadavere di Oberto: ordinario, contemporaneo squallore metropolitano. Ovviamente Leonora non si ritira in convento ma resta fra le braccia di Cuniza: a resistere, a vincere è la solidarietà.

La drammaturgia racconta di Oberto, capofamiglia esiliato dopo una lotta per il controllo del territorio vinta da Riccardo, il quale, per consolidare il suo potere, promette di sposare Cuniza, figlia dell'altro capofamiglia, rompendo la promessa con Leonora, figlia di Oberto e incinta. La vicenda si svolge nel giorno che precede le nozze, mentre fervono i preparativi che non interrompono gli affari camorristici. I riti del matrimonio sono ben delineati con il vestito bianco portato con fare processionale lungo lo scalone mentre parrucchiere, estetiste e manicure si affannano intorno alla sposa. Leonora riesce ad introdursi nella villa e a parlare con Cuniza che resta colpita dalla vicenda sinceramente raccontata al punto da decidere di mettersi contro Riccardo. La resa dei conti porta all'uccisione di Oberto, all'esilio volontario (latitanza) di Riccardo, all'amicizia di Cuniza e Leonora, anticipata da un bacio saffico dopo il riscoperto duetto che lascia Leonora interdetta.
Martone convince nelle scene e nelle controscene, l'ambientazione è realistica e credibile, non stride con il libretto anzi pare dare maggiore forza e incisività alla vicenda che scorre con una chiarezza e una iconicità cinematografiche.

Riccardo Frizza è esperto e fine conoscitore del repertorio dell'epoca. Si è apprezzata la scelta di ripristinare il duetto Leonora-Cuniza dell'atto secondo per ragioni musicali (la tinta già verdiana su influenze belliniane) e drammaturgiche (Cuniza vuole sincerarsi dell'innocenza di Leonora prima di decidere di proteggere Oberto da Riccardo). Se non possiamo non convenire sulla scarsa originalità della partitura che dimostra debiti, Frizza enuclea e sottolinea il tratto personale di Verdi in modo egregio senza insistere inutilmente nelle ruvidezze. Il suono è ben amalgamato tra le sezioni orchestrali e bilanciato con le voci, supportate alla perfezione.

Michele Pertusi è un Oberto deciso ma non protervo, un uomo che ha perso la voglia di combattere ma che non abbandona la figlia in difficoltà; la voce è precisa e controllata, vellutata nelle nuances scure.
Maria Agresta è una Leonora con vistoso pancione, in grado di reggere gli acuti della tessitura ma anche di rendere le pieghe del personaggio grazie a un sonoro grave e a un centro pieno e luminoso; affronta con cautela la cavatina “Sotto il paterno tetto” ma dando subito prova di un saldo registro alto e di un grande temperamento che manterrà sino alla fine.
Sonia Ganassi si impone in scena con la sua Cuniza resa con intensa attorialità: se la scrittura pare bassa per la sua tessitura, l'esperienza e la bellezza del mezzo vocale le consentono di risolvere il ruolo in modo egregio: è lei il personaggio che subisce la maggiore evoluzione, dall'illusione dell'amore in “Il pensier d'un amore felice” al mettersi dalla parte della più debole (Leonora) in “Più che i vezzi e lo splendore” fino alla mirabile fusione di voci nel duetto ripristinato “Vieni, vieni a questo petto”.
Nonostante l'annunciata indisposizione, convince il Riccardo di Fabio Sartori, soprattutto nella romanza “Ciel pietoso, ciel clemente” che ha l'intensità di una preghiera.
Josè Maria Lo Monaco è Imelda, confusa nel coro impeccabilmente preparato da Bruno Casoni.

Diversi posti vuoti, molti applausi, nel finale qualche isolata contestazione per la Ganassi, Martone e lo staff tecnico.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)