Orchidee, nuovo lavoro di Pippo DelBono, coproduzione dell’Arena del Sole - Nuova Scena Teatro Stabile di Bologna, ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma, Theatre du Rond-Point di Parigi e Maison de la Culture D’Amiens, è andato in scena dal 20 al 23 novembre all’Arena del Sole.
Orchidee è una serie di momenti, ricordi, un album di fotografie di vita, un collage di suggestioni: un flusso di immagini, suoni, parole, azioni. Il nuovo spettacolo di Delbono vuole essere un manifesto, a tratti gridato, a tratti sussurrato: c’è rabbia, furia, ma anche dolcezza e amore – vuole essere al tempo stesso teatro, e vita, fotografia, televisione, cinema, ricordo, sogno. In Orchidee c’è il tentativo di fermare il tempo che scorre inesorabile.
È uno spettacolo dai molti finali, come se Delbono e la sua compagnia non volessero mai lasciare la scena, il pubblico, quasi volessero prolungare all’infinto la fine; come se questa confessione lunga uno spettacolo fosse l’unico modo per rimanere vivi, per esistere, per essere reali e veri in questa realtà così confusa, in questo tempo così ambiguo e inafferrabile, dove la finzione e la realtà si confondono. E proprio da questa situazione di ambiguità e confusione che deriva il titolo Orchidee, Delbono ci racconta nel corso dello spettacolo che il titolo lo deve a due signore che chiacchieravano in un albergo di Roma: una delle quali confida all’altra che in casa deve sempre avere una orchidea finta e una vera, perché tanto non si riesce mai a distinguere bene quale sia vera e quale no.
Dodici performers in scena, una galleria di varia umanità – come in ogni lavoro di Delbono, che danno vita a uno spettacolo che per certi versi è una sorta di veglia funebre, o meglio è un omaggio alla madre di Delbono mancata un anno fa, ma è anche un tentativo di esorcizzare la morte che quando ci tocca da vicino ci lascia orfani, soli, indifesi, smarriti, confusi, arrabbiati, furiosi e stanchi.
Delbono, regista inconsueto e originale di teatro e cinema, attore poetico e fuori dagli schemi,
con la sua Compagnia - undici interpreti singolari nelle loro peculiarità e caratteristiche - ha creato uno spettacolo sincero (o quanto meno questa era la sua vocazione), senza falsi pudori, schietto e di forte impatto. La vita di Delbono prende corpo in scena, tra colori e vistosi costumi teatrali, e in platea. Un atto unico, in cui la voce fuori campo del regista, calda, pastosa, dal respiro affannoso e pesante, accompagna il pubblico nel corso di tutto lo spettacolo; Delbono confida di sentirsi smarrito, confuso, di non capire più niente del mondo e di non volerci più stare – sebbene si è costretti a farlo in qualche modo, e suggerisce di riappropriarsi del tempo passato, perduto, di provare a percepirne il senso profondo, per tentare di fermare i ricordi.
In questo spettacolo-manifesto-flusso di coscienza per l’ennesima volta Delbono confessa la sua omosessualità, la sua malattia –l ’Aids, tutto ciò che già in altri spettacoli aveva rivelato e che chiedeva al pubblico di non rivelare alla madre, in quanto fervente cattolica.
Nello spettacolo non vi è una linea logica, né cronologica, è un flusso di coscienza, ricordi, sensazioni, aneddoti, il cui filo conduttore è l’emozione, il sentimento che li muove.
Lo spettacolo inizia e il pubblico non se ne accorge subito: le luci di sala ancora non si sono spente, quando una voce strana, insolita per un annuncio, chiede semplicemente di spegnere il cellulare, per poi inizia a divagare, a raccontare, a raccontarsi: lo spettacolo è iniziato.
Il pubblico con lo sguardo cerca Delbono, in scena, in platea, ma non riesce a individuarlo, così si sofferma a osservare il palco vuoto, scarno: la scena vuota, col passare dei minuti, crea nello spettatore una sensazione di mancanza e di perdita, che sarà il tema dello spettacolo – il vuoto lasciato dalla morte della madre nella vita, nel mondo di Delbono. Solo il regista parla e interagisce direttamente con il pubblico, gli attori sono una sorta di burattini che tentano di riempire uno spazio vuoto, un silenzio assordante: interpretano un personaggio, ma in playback, sembrano sempre fuori posto, come in prestito, quasi di passaggio, sono nudi ed indifesi.
Orchidee è anche una riflessione sulla contraddittorietà insita nelle relazioni umane, nella società odierna. È uno spettacolo che in un certo senso vuole dichiarare battaglia al pubblico, lo vuole scuotere, lo vuole coinvolgere, ma non sempre ci riesce.
La musica, che si muove dai Deep Purple a Nino Rota, da Pietro Mascagni a Miles Davis, da Joan Baez a Philip Glass, è un elemento di fondamentale importanza poiché diventa il motore per creare situazioni di sfogo liberatorio per i corpi in scena. La musica svolge una funzione drammaturgica ben precisa poiché crea e distrugge, stimola ed evoca, muove e indirizza il gesto, le visioni, le azioni e le reazioni.
Nello spettacolo c’è un chiaro omaggio a Pina Bausch: piccoli siparietti con uomini visibilmente in sovrappeso, muscolosi, bassi o troppo alti e donne allampanate su tacchi poco stabili o donne formose che danzano, ammiccano, si mettono in mostra ripetendo uno stesso gesto in passerelle circolari, cercando di contagiare e coinvolgere la platea. Qui la vita e il sogno di intrecciano, danzano insieme un valzer infinito.
Delbono indugia in molte citazioni teatrali e letterarie, attingendo a piene mani da Shakespeare (“Amleto”, “Romeo&Giulietta”, “Macbeth”), da Oscar Wide, da “Il giardino dei ciliegi” di Checov, da “On the road” di Keruac : sono una sorta di “deja vu”, suscitano emozioni, immagini, ricordi più che raccontare una storia, il messaggio da essi contenuto è chiaro, ma non esplicito. Di tanto in tanto Delbono emerge dal fondo della platea per andare egli stesso sul palco, a ballare, a muoversi in maniera buffa e goffa, a contorcersi, a cercare in modo impacciato di riempire quel vuoto con un po’ di normalità, di quotidianità e leggerezza.
Questi momenti si esauriscono sempre con il suo ritorno in platea, dopo una breve pausa riflessiva sul proscenio, guardando il pubblico. Il vuoto resta ed è difficilmente colmabile.
Dice Delbono «Io sono un passionale nelle cose, e l'abbandono cechoviano di un giardino lo associo allo strappo da mia madre scomparsa da un anno. Non escludo che in Orchidee ci sia la sua voce, anche perché mia madre m'è entrata dentro, e la ritrovo negli altri. Eh sì, i vivi e i morti... Orchidea in francese vuol dire eternità, qualcosa di afferrabile e inafferrabile»
Discutibile la straziante proiezione di un filmato relativo agli ultimi giorni di vita della madre: si sente la voce debole e flebile della donna, provata dalla malattia, e si vedono due mani, quella diafana, magra, piccola e fragile della madre, accarezzata dalla mano grande e forte del figlio. È un momento toccante, dolorosamente crudele, un’incursione nell’intima sofferenza degli ultimi momenti di vita di chi non c’è più e un immergersi totalmente nel dolore di chi è rimasto, di chi deve fare i conti con la perdita, con il vuoto che segue.
“Se n’è andata perché non ci capiva più niente di questo mondo. Lei fermava la persone per strada, ci parlava, raccontava a tutti i fatti miei… E io dico tanto di mia madre, ma anch’io fotografo, filmo tutte le persone, le cose che vedo... Ho ripreso anche lei, mentre si spegneva, e un ciliegio, simile a quello che quando ero piccolo invadeva con i suoi fiori la nostra casa… Poi qualcuno l’ha tagliato, e quell’odore è finito per sempre”.
Forse il senso dello spettacolo è ritrovare se stessi, è riappropriarsi di quello slancio vitale che permette di rimanere vivi, di continuare ad esistere. Per certi versi Orchidee è uno spettacolo anticonformista, che vuole emozionare e disorientare. A volte va oltre, come in alcune scene di nudo integrale fini a se stesse, la cui funzione sembra essere quella di riempire uno spazio, e in alcune parti il ritmo risulta più lento del solito, rendendo la visione più faticosa e pesante, ma in spettacoli come questi, che fanno giocare un ruolo preponderante alla componente emozionale, i giudizi non possono che essere soggettivi; non è uno spettacolo organico, è fin troppo frammentario, la drammaturgia è confusa, poco funzionale: i tempi - a tratti – sono troppo dilatati, non c’è continuità né chiarezza d’intenti.
Pippo Delbono è indubbiamente un artista sensibile e con una sua poeticità, capace di trasmettere forti emozioni, di far sorridere e commuovere, con un percorso artistico di notevole valore e rispetto, ma questo non implica necessariamente che qualsiasi sua creazione sia un prodotto artistico eccellente e magnifico, sebbene realizzata con personaggi umili che provengono da una realtà che sta a cuore a Delbono, che ama profondamente e con cui vive da anni. Lo spettacolo, come è stato già detto, è un insieme eterogeneo di citazioni e testi illustri di autori teatrali e letterari che vengono presentate al pubblico con diverse modalità sceniche, ispirandosi a vari artisti: da Pna Bausch a Pasolini, dalla video arte al teatro di Brecht, dal varietà al teatro sociale.
Un flusso di coscienza ininterrotto di quasi due ore, con Pippo Delbono nel ruolo del mattatore, del deus ex machina che entra ed esce dalla scena a suo piacimento.
Magari in un altro contesto questo suo raccontarsi, mettersi a nudo sarebbe interessante e commuovente, ma in questa circostanza, presentati in questo modo, sembrano più che altro una manifestazione personale, l’ennesima manifestazione personale in cui l’autore vuole sfogarsi, vuole raccontarsi, “buttare fuori” tutto ciò che ha dentro, che lo affligge, lo opprime: una sorta di seduta di analisi collettiva. Questo non vuole essere un attacco nei confronti di Bobo e degli altri attori, creature umane fragili, dolci e di singolare bellezza, che si alternano in scena, quanto una riflessione ad alta voce su uno spettacolo che presentato così rischia di essere un’accozzaglia confusa di personaggi non finiti, in divenire, una sorta di attrazioni circensi, di “fenomeni da baraccone”, perdono la loro identità di uomini, per diventare funzioni espressive che si limitano a fare e vivere partiture di scene isolate le une dalle altre: non raccontano l’essenza della realtà.
È necessario mettere attori nudi sul palco, con vestiti di piume e dai colori accesi o di metterli a ballare tutti insieme – per quanto alcuni di questi momenti fossero di estrema bellezza e poesia – per poter comprendere l’umanità, la sua essenza?! Non bastano belle persone e nobili intenzioni per fare un buon spettacolo, per creare un lavoro che funzioni e viva in maniera coerente e autonoma in scena.
Detto ciò, rimane un dubbio: il riproporre di Delbono costantemente lo stesso schema creativo deve considerarsi la sua cifra stilistica o semplicemente è un utilizzare in maniera furba e intelligente una “ricetta” ormai collaudata, che piace e funziona?! Un’altra domanda che sorge spontanea è: se lo spettacolo non fosse firmato da Pippo Delbono, ma da un’illustre sconosciuto si continuerebbe a parlare di capolavoro o si analizzerebbero con più attenzione i limiti e i problemi di questo lavoro?!