Realizzata nel 1762 come breve ‘festa teatrale’ per la corte di Vienna, Orfeo ed Euridice impiega il ballo non come elemento esornativo indipendente, bensì come vero e proprio ingrediente drammaturgico. Se la coeva opera di impianto tradizionale accoglieva danze anche molto elaborate, con soggetti e costumi propri, nell’intervallo tra gli atti, la creazione di Ranieri Calzabigi e Christoph Willibald Gluck prevede momenti coreutici integrati nell’azione, affidati rispettivamente a «pastori e ninfe» (I.1), a «spettri dell’inferno» (II.1), a «ombre fortunate» (II.2) e infine a «eroi ed eroine» che nell’epilogo circondano i protagonisti (III.3). L’intrinseca vocazione a coniugare felicemente il gesto con la parola e il suono ha propiziato la metamorfosi della pièce in una sorta di Tanzdrama nel quale il ballo si fa componente pervasiva e impronta di sé l’intero spettacolo. Antesignana del transito al ‘tutto-danzato’ fu Pina Bausch nel 1975. Sulla stessa linea, ma con uno stile completaemente diverso e originale, si è mossa Karole Armitage quando nel 2003 il Teatro di San Carlo le ha chiesto di rileggere la vicenda che ha per protagonista il cantore tracio. La produzione del 2003 ha ricevuto larghi consensi, tanto da essere riproposta dal massimo napoletano già nel 2008 e di nuovo in questi giorni.
L’impatto visivo dell’allestimento conserva il suo fascino. Lontane da qualunque intento descrittivo e naturalistico, le scene firmate da Brice Marden si basano su pochi tratti dal profilo levigato che, con la complicità di sobri effetti luministici (ideati a suo tempo da Roberto Venturi e ripresi ora da Barbara Mugnai), disegnano un’atmosfera sospesa e astratta. Siamo in un sogno: nel sogno attraverso il quale il protagonista (che infatti compare spesso sdraiato e addormentato) elabora il lutto, dà forma alla sofferenza, evoca le proprie paure e intraprende un personalissimo viaggio alla ricerca dall’amore perduto.
In questo spazio interno alla coscienza eppure sconfinato, Armitage cala le sue affascinanti invenzioni cinetiche (in questo caso affidate alle cure di Lienz Chang). L’artista statunitense, pur perseguendo uno spiccato eclettismo, tende costantemente a prosciugare e stilizzare il gesto. Ciò determina una rarefazione plastica che spesso non giova alla tensione drammatica. Emblematico è, in tal senso, il trattamento nella scena delle furie: il moto incessante dei ballerini, che ora si snoda con ordinata simmetria e ora ricorda una sessione di jogging in Central Park, restituisce in forma troppo annacquata la tensione dell’incontro/scontro tra individuo e turba. Assai più riuscito appare il segmento successivo, nel quale il lento risveglio delle anime beate si dispiega in un clima di assorta purezza. Sul piano musicale, lo spettacolo sancarliano alterna luci e ombre. Non riesce a trovare una propria cifra interpretativa il direttore veneziano Francesco Omassini. Sotto la sua bacchetta, il flusso sonoro scorre tanto uniforme da risultare a tratti noioso; la declamazione dei recitativi risulta troppo dilatata, e perciò l’indugio richiesto dai passi più patetici ed espressivi non spicca come dovrebbe; quasi del tutto assente, inoltre, è il chiaroscuro, indispensabile per valorizzare le preziose sfumature della partitura gluckiana in tutta la gamma che va dallo scandalo degli unisoni ctoni ai più aerei impasti elisi.
Poco incisiva è sembrata Daniela Barcellona nei panni di Orfeo; la sua performance, piuttosto discontinua, è stata segnata da qualche sbavatura nel controllo del volume e da evidenti difficoltà nell’area grave. Cinzia Forte presta il suo bel timbro a Euridice senza però mettere pienamente a fuoco il profilo drammatico del non facile personaggio. Molto convincente è invece Giuseppina Bridelli, capace di conferire una freschezza quasi infantile al ruolo di Amore e di investire di riflessi corruschi le sue capricciose epifanie. Il coro, addestrato da Marco Faelli, ha fornito una prova insoddisfacente ed è intervenuto spesso in modo slegato e con evidenti squilibri tra le sezioni. Forse a penalizzarlo è stata anche l’inappropriata collocazione: sfrattato dal palcoscenico dopo la trenodia iniziale, esso resta infatti esiliato in buca per tutto il corso dell’azione e viene recuperato alla vista solo nel vaudeville conclusivo.