Tiene posata sul leggio la bacchetta e guida semplicemente con le mani, Filippo Maria Bressan, quando deve condurre il coro nelle dense pagine ad esso dedicate da Gluck in Orfeo ed Euridice. Mani dal gesto flessuoso, elegante, molto preciso, saturo di significati; mani che accarezzano l'aria e che sanno esprimere tante cose, e suggeriscono ai cantori non solo i giusti attacchi, ma anche molte sottigliezze d'espressione. Molto preciso e duttile, con un suono delicato ed avvolgente, s'è mostrato il Coro del Teatro Verdi di Trieste, sotto la sua guida; e non meno encomiabili sono parsi gli strumentisti dell'Orchestra, presenti in un organico moderatamente ridotto - quello cioè che a parer mio dà i migliori risultati – perché, pur non essendo certo avvezzi a un siffatto repertorio, si sono mostrati all'altezza del compito e sempre pronti ad assecondare Bressan in una concertazione scabra e severa, dall'accento neoclassico. Concertazione esemplare non solo perché estremante musicale, stilisticamente appropriata, narrativamente fluida; ma soprattutto perchè trasparente nella tessitura, limpida nelle sonorità, ben calibrata nei contrasti dinamici. E che, senza mai cadere nella trappola della filologia ad ogni costo, è assolutamente aliena da ogni magniloquenza e da ogni indulgenza romantica, o peggio ancora tardoromantica. Va detto subito che la versione del capolavoro gluckiano adottata per queste recite triestine è quella viennese del 1762, più drammaturgicamente stringente, che negli ultimi anni sembra essere un po' da tutti preferita; ma ancora una volta, non si sa perché, dolorosamente privata delle danze. Scelta deprecabile senza dubbio – anche senza coreografie e danzatori, val sempre la pena di eseguirle - che sminuisce non poco la portata della partitura. La versione parigina 1774, come si sa, possiede in più altre pagine di musica che ne dilatano le dimensioni; ma se da un lati si presenta più ricca, nondimeno dall'altro pare perdere qualcosa quanto a sinteticità d'emozioni. Adottare l'una o l'altra, è insomma solo questione di gusti: basta eseguirle integralmente – danze comprese - e non riprendere mai più in mano la famigerata versione Ricordi 1889, pessimo compromesso tra le due.
Assente dalle scene triestine da vent'anni – l'ultima apparizione risale al 1995 nella Sala Tripcovich, direttore il compianto Peter Maag – e probabilmente messa in cartellone per le celebrazioni gluckiane (ma ci siamo mossi con un anno di ritardo, perbacco!) Orfeo ed Euridice doveva essere presentata nell'allestimento curato da Denis Krief per il Maggio Musicale Fiorentino; ragioni credo di risparmio hanno tuttavia suggerito all'ultimo la rinuncia ad esso, giocando 'in casa' con le forze stabili della Fondazione Teatro Verdi. Si è preferita cioè la creazione di un nuovo ed evidentemente meno costoso allestimento, dall'esito peraltro decisamente monacale, affidato alla regia di Giulio Ciabatti, che opera con savio equilibrio senza però proporre grandi invenzioni. In scena, il pubblico trova le minimalistiche quinte di Aurelio Barbato (una bassa scalinata, due alte porte ai lati, dei grandi pannelli mobili, un po' di sedie sparse), e personaggi calati in moderni abiti qualunque - anche questi con la sua firma - ma indubbiamente cose di magazzino; a distinguere le anime perdute – le Furie e gli Spettri - solo dei cappelli per gli uomini ed un pesante soprabito per tutti. Un accorto movimento luci di Claudio Schimd – nota sicuramente positiva dello spettacolo – alternava con singolari effetti drammatici opprimenti oscurità ad abbaglianti squarci di luce. Credo che, lavorando per sottrazione, meno di così non si potesse fare; ma a questo punto, tenuto conto anche della natura intrinseca del lavoro, non sarebbe stato male proporre un'esecuzione in forma di concerto.
Nella recita domenicale alla quale abbiamo assistito, Orfeo stava nelle mani di Rossana Rinaldi, Euridice in quelle di Larissa Alice Wessel, Amore in quelle di Milica Ilic. Il mezzosoprano campano ha una composta sensibilità musicale, un'intelligente linea di canto ed una naturale intensità espressiva, doti che apportano notevole spessore drammatico al suo cantore; eloquente l'aria del primo atto «Chiamo il mio ben così», con sobrie variazioni, intenso il duetto con l'amata, fraseggiata con limpida nobiltà (ma con qualche accenno di monotonia) «Che farò senza Euridice».
Quanto al giovane soprano canario, ha sciolto molto bene il suo confronto con Orfeo – la versione viennese limita a questo la presenza di Euridice – con grazia giovanile e buona proprietà di stile, ma pure con un non so che di scolastico; la Milic, sopranino serbo naturalizzato australiano, mostra molto garbo in scena, ma vocalmente qui non desta grandi impressioni. Ricordiamo che la prima compagnia allineava invece nelle due parti principali Laura Polverelli e Cinzia Forte.
Teatro desolatamente semivuoto, ahimé; forse i triestini, vista la bella giornata, hanno preferito le gite fuori porta.
Lirica
ORFEO ED EURIDICE
Mani che sembrano cantare
Visto il
08-03-2015
al
Verdi
di Trieste
(TS)