Muove una suggestione forte negli spettatori, questo allestimento post moderno nei grandi padiglioni vuoti della Fiera, spazio urbano da sempre oggetto di pensieri, dibattiti, speranze di un miglior utilizzo.
Il vuoto, le colonne, l’architettura monumentale in cemento, il taglio freddo ed esatto della luce, tutti questi elementi sono abitati con impatto e intelligenza scenica a partire da una scelta registica articolata e felice che, optando per la complessità di uno spettacolo itinerante, riesce comunque a tenere sempre lo spettatore avvinto e coinvolto.
Un mosaico sul dolore
Il Teatro della Tosse ci ha abituati alle (ri)letture dei miti e, specie all’interno di un cartellone che aveva ospitato il successo di Eurydice, era interessante osservare quale taglio di lettura fosse stato dato alla vicenda di Orfeo.
Tenendo fermi alcuni elementi scenici – allegorici (il baccanale, il binomio amore – morte, la danza, le fascinose calaveras messicane), tutta l’opera si gioca in questo caso su un’interessante e mai banale riflessione sul senso del dolore e del distacco.
La morte quale necessità – dunque – e l’inutilità di ogni nostro tentativo di riportare indietro chi avevamo al fianco; ma anche la banalità del male, la facilità con cui si cade nella trappola di un maniaco persecutore, l’incomunicabilità tra mondo dei vivi e dei morti. Tra monologhi, dialoghi e parti danzate, suggestive proiezioni sceniche, foniche e luminose, la storia dei due amanti divisi della morte si dipana da punti di vista differenti, in cui il tono fosco, quasi gotico, si alterna a momenti di humour, come nella vecchia Proserpina interpretata da Campanati. Della location post industriale e metallica si sfruttano tutte le potenzialità espressive, specie nel quadro (di grande impatto emotivo) dedicato all’obitorio di tutti gli eroi perduti.
Una prova per il pubblico
In tutta questa movimentazione corale, il rischio, specie per un pubblico itinerante, è perdere contatto con la storia e il filo unitario della narrazione. L’allestimento riesce però efficacemente a scongiurare questa eventualità – puntando comunque su una narrazione molto “satura” dal punto di vista sensoriale – in cui si sarebbe potuta valorizzare l’espressività individuale anche con scene meno cariche e d’impatto. Lo spettacolo risulta comunque, anche per l’elevato livello tecnico generale, un mosaico riuscito sul distacco e sul dolore, un momento di autentica catarsi a tinte forti, in cui ognuno, come nel mito, è chiamato a sentirsi contemporaneamente ascoltatore ed eroe.