Milano, teatro alla Scala, “L'Orfeo” di Claudio Monteverdi
ORFEO IN UN'ALTRA DIMENSIONE
Pietra miliare nella storia del melodramma, da molti considerata la prima “opera lirica”, L'Orfeo è ispirato al mito greco e si basa su un testo di nobile respiro e di notevole intensità drammatica. Monteverdi, a cui il duca di Mantova lo commissionò di ritorno da Firenze, dove aveva assistito a all'innovativo genere di teatro musicale, riesce a fondere sé stesso con il protagonista, i cui sentimenti sono interpretati fedelmente dalla musica. Il compositore dimostra piena consapevolezza delle passioni umane dell'uomo del tardo Rinascimento, parte dalla struttura formale dell'intermedio cinquecentesco (scene pastorali, danze e canti madrigaleschi) ma ne fa una materia completamente nuova, proprio perchè pone al centro l'introspezione dell'animo umano, che riesce a rendere con nuovi impasti musicali.
Alla Scala è andato in scena nella versione di Bob Wilson, autore di regia, scene e luci (i costumi sono di Jacques Reynaud), una nuova coproduzione con l'Opéra National de Paris. Wilson crea un ambiente, sia fisico sia di atmosfere, molto rarefatto, surreale, intendendo con questo termine la particolare aura che si respira nei quadri del Doganiere, un mondo che ha connotati di realtà ma che la trascende, rarefacendo i gesti ed i movimenti e proponendo azioni di non immediata spiegabilità, senza però sconfinare nel metafisico. Si ripetono le scelte operate in molte delle sue ultime regie, al punto da non creare più nessun particolare effetto sul pubblico: i movimenti rallentati o congelati (le scene improntate all'immobilità), le luci curatissime in colori netti e decisi, il taglio naif della messa in scena. Il tutto con raffinatezza e vivo senso dello spettacolo, visivamente parlando. Ma uguale a molte altre sue regie liriche.
La scena all’inizio è appunto molto semplice, minimale, come nei quadri di Rousseau: due filari di cipressi sui lati a formare un viale alberato prospettico con animali (conigli, scimmia, cervo, pantera, uccelli) che si presentano in scena ogni tanto, chissa perchè. Il coro è vestito di grigio chiaro, si muove molto lentamente, a scatti, come automi, creando l'effetto di vita in un'altra dimensione, lontano dal mondo frenetico del contemporaneo. Ma questo effetto sarebbe comunque stato reso dalla musica, dalle linee intime del canto, dagli orchestrali ridottissimi e con strumenti antichi.
I personaggi principali invece sono vestiti in velluto blu scuro; l’effetto del tessuto cambia con giochi di luce a seconda dei momenti dell’opera; anche i volti sono illuminati in diversi colori a seconda della condizione dei personaggi, i quali pure si muovono con la solita, notevole lentezza sulla scena. Eccezion fatta per Apollo, chiuso in una specie di scafandro dorato.
La scena dell’inferno è realizzata con monoliti squadrati che all’inizio occupano la superficie della scena a tutta larghezza e altezza e nel corso della scena si aprono e si diradano, liberando il campo fino alla scena dell’uscita dall’inferno; la scena finale è quasi completamente vuota ad eccezione di uno solo degli alberi della prospettiva iniziale. Nessun effetto speciale, nessun deus ex machina, neppure per l’ascesa al cielo: i personaggi escono di scena camminando, ovviamente sempre molto lentamente.
La direzione di Rinaldo Alessandrini è corretta e precisa, non si lascia prendere la mano con interpretazioni personali e rende il Monteverdi degli albori dell'opera con maestria seppure il suono risulta “piccolo” nei grandi spazi scaligeri.
Ottimo il cast, dominato dallo splendido Orfeo di Georg Nigl, a cui è facile perdonare qualche durezza nella pronuncia dell'italiano. Bene i comprimari, a cominciare da Roberta Invernizzi (doppio ruolo: Musica ed Euridice) e da Sara Mingardo (anch'essa due ruoli: Messaggera e Speranza). Belle presenze e voci adeguate per Luigi De Donato (Caronte, senza barca) e Giovanni Battista Parodi (Plutone, senza Ade). Va da sé che non c'è carro per Apollo (Furio Zanasi). Completa il cast Raffaella Milanesi (Proserpina).
Diversi posti vuoti in sala, con il loggione ancora parzialmente fuori uso. Applausi contenuti nel corso della recita, più aperti alla fine, con consensi unanimi nei confronti del protagonista.
Visto a Milano, teatro alla Scala, il 03 ottobre 2009
FRANCESCO RAPACCIONI con la collaborazione di Lorenzo Chiavari
Visto il
03-10-2009
al
Teatro Alla Scala
di Milano
(MI)