La Fenice anticipa le celebrazioni per i bicentenari della nascita di Verdi e Wagner e compie un grande sforzo produttivo inaugurando la stagione con due titoli, Otello e Tristan und Isolde, scelti per i legami che entrambi hanno con la città: Otello comanda la flotta veneziana, Tristan und Isolde è stata per lo più composta a Venezia. Due nuovi allestimenti che debuttano a due giorni di distanza e che dimostrano la maturità produttiva e artistica della Fondazione.
Nel libretto di Arrigo Boito sono continui i riferimenti al cielo, agli astri, al destino personificato nelle stelle: quindi Edoardo Sanchi fodera le pareti del palco di immagini di costellazioni prese dalle carte celesti rinascimentali, come un globo celeste da contrapporre a quel mondo immutato terracqueo che è Venezia. Pareti i cui colori virano al blu notte e che non sono piatte, ma articolate in moduli rettangolari che, alzandosi, creano varchi per l'entrata/uscita delle masse. Dal fondo si stacca, come una sorta di “cassetto” che avanza verso la platea, un parallelepipedo che, ruotando su se stesso, svela un interno tipico del vicino Oriente: le stoffe del letto e del divano, i cuscini grandi a terra, il narghilè, le pareti a motivi geometrici illuminate di giallo e arancio dal bravo Fabio Barettin.
I costumi di Silvia Aymonino situano l'azione alla fine dell'Ottocento, negli anni in cui Verdi componeva la partitura, anche se alcuni dettagli ci sono parsi sbilanciati già oltre il Novecento, come la vestaglia jugendstil del Moro, le divise con ghette e i baschi coi pon pon in una sorta di “vestivamo alla marinara”. La cifra utilizzata per gli abiti è la linearità, senza alcun eccesso; il colore dominante è il bianco per tutti, tranne il nero riservato a Otello. Coro e comparse fra impermeabili grigi e divise bianche.
Dall'ouverture si coglie senza dubbi la cifra registica di Francesco Micheli. Il boccascena è chiuso da un velatino con le costellazioni di cui si è detto e dietro, in trasparenza, la professione di odio verso il Moro vergata a mano da Jago su un telo enorme che cade a terra e diventa mare in tempesta: l'odio è un mare nero e tempestoso che inghiotte nel suo gorgo senza scampo chi si avvicina, anche involontariamente e inconsapevolmente. Siamo tutti coinvolti: i lampi temporaleschi squarciano la platea e illuminano il palco di riflesso. Quelle parole scritte di proprio pugno mostrano che Jago agisce dolosamente e il regista si interroga, anche nel testo contenuto nel programma di sala, sulle ragioni di tanto e totale odio.
Il modellino di nave isolato da un fascio di luce e poi passato, in periglioso ondeggiare, di mano in mano dai coristi in proscenio ha forte valenza simbolica. Il segno di Micheli è asciutto e deciso, non indugia in appigli non necessari e dunque risulta immediatamente comprensibile, sia per quanto riguarda il plot sia per quanto riguarda le intenzioni registiche.
La solitudine regna in scena, come nell'animo dei protagonisti. Una solitudine notturna e rumorosa che precipita Otello nel “male oscuro”, nelle fauci terribili e irrimediabili di quella depressione che ne mina non solo il cuore ma anche le capacità razionali e cognitive. Otello si è fidato di Jago perchè lo ha visto deciso e sicuro di sé; Otello ha, di conseguenza, letto la quotidianità attraverso l'occhio di Jago; Otello è il solo artifex malae fortunae suae, colui che proietta la sua autodistruzione sopra l'amata. Dunque non può che essere Desdemona, in questa coerente lettura, a porgergli il pugnale con cui suicidarsi: si badi bene, Desdemona è già morta: a compiere l'azione è il suo “riflesso”, il rimorso o la colpa del Moro. Poi è ancora Desdemona a porgere a Otello il braccio in modo che lui si rialzi da terra: insieme si incamminano verso quel cielo stellato che ora pare meno sfavorevole. Ma sempre buio. E sempre incerto. La condizione precaria, fluttuante dell'uomo depresso e solo è più volte richiamata dai modellini dei velieri: l'uomo si smarrisce, la solitudine e la depressione non possono portare che al naufragio, nonostante la presenza di affetti e di impegni. Non ci sono alternative al naufragio: il cielo tempestoso non aiuta, quel buio anche di giorno non consente punti di riferimento se non illusori, irraggiungibili astri. Quelle stelle a cui ci si affida, quel cielo muto e sfavorevole che amplifica il senso di smarrimento e di insicurezza trasformando il protagonista in nevrotico, ossessionato, allucinato. E noi con lui: quel senso di estraneità e di disagio così ben intuito e raccontato da Micheli (e visualizzato da Sanchi) è tutto nel nostro oggi.
L'atmosfera cameratesca di un universo a predominante componente maschile è suggerita dalle brande militari, a castello e non, una situazione così invasiva e soverchiante che, nel finale, il talamo nuziale non è più quel sontuoso letto orientaleggiante ma due scheletriche brande metalliche. Il ruolo del fazzoletto è evidenziato: non c'è antefatto, Otello lo regala a Desdemona nel primo atto e il loro toccarsi le mani attraverso quel velo candido è altamente simbolico. Sensuale il bacio che Otello posa sul piede snudato di Desdemona.
Obnubilamento di ragione non solo per Otello: Jago è in preda a deliri e visioni, tanto che durante il “credo” mani nere lo ghermiscono dal buio, prima che si stenda sul letto in posizione fetale come a invocare e/o supplicare protezione. Quel letto che Jago si ostina a sistemare e Otello invece scopre con gesti rabbiosi. Il mare, in genere presenza costante, qui è solo evocato: i modellini dei velieri, le divise dei marinai, i due remi che sostengono la Madonna in processione.
Ma se Otello si attenesse al concreto, la storia sarebbe diversa: basti vedere quel lavaggio reciproco di mani tra lui e la moglie nel secondo atto per comprendere la sacralità di quel legame d'amore non ancora intaccato. Ma il male è in agguato, Jago sempre si aggira furtivo nell'ombra. Jago tocca la mano di Otello come prima aveva fatto Desdemona e il Moro, dopo lo stupore, inorridisce. Ma ormai Otello è nelle mani di Jago, a terra in ginocchio con Jago che lo domina psicologicamente e fisicamente con le mani ferme a schiacciare le spalle del Moro ormai prive di gradi militari e medaglie, burattino nelle mani del perfido “amico”.
Che può fare Otello contro Jago? Come può fermare il destino e quel cielo notturno irrespingibile, che avanza da fondo scena all'inizio del terzo atto? Il destino è segnato, magari era scritto nelle stelle (a saperle leggere). Il destino incarnato in un fazzoletto, il fazzoletto di Desdemona con cui Jago benda Cassio in un perverso gioco: nel terzo atto Otello è già morto dentro. E infatti si stende a terra, coperto dalla bandiera della Serenissima. A nulla vale il raccomandarsi a Dio: Desdemona ha al collo un grande rosario rosso che aveva affidato alla Madonna ma è proprio con quel rosario che Otello la strangola.
Myung-Whun Chung dà alla partitura una forte impronta sinfonica con impasti di incisiva espressività che portano a un impatto elettrizzante sul pubblico; il suono ben cesellato vira verso l'oscurità in ideale sintonia con le scelte registiche e scenotecniche. I tempi sono costantemente sostenuti e la tensione drammatica non viene mai meno perchè le dinamiche sono molto curate e precise, ottenute da un'orchestra perfetta.
Gregory Kunde debutta nel ruolo del titolo e convince appieno: la voce è pulita e piena, l'acuto cristallino e ben sostenuto, i centri a fuoco, suggestivo il grave. Leah Crocetto debutta come Desdemona e in Italia, la voce è grande, svettante in acuto e padrona della dizione, particolarmente convincente nel duetto con Otello nel terzo atto le cui amplissime campate regge alla perfezione, salvo eccedere in acuti imperiosi nell'aria del salice. Lucio Gallo gioca la carta dell'attorialità e amplifica il moto delle ciglia inarcate minacciosamente, ispessendo lo sguardo vampiresco; manca però quell'insinuarsi della voce a rendere appieno la perfidia e la sottile malignità di Jago. Bravo Francesco Marsiglia, un Cassio innocente e ingenuo. Precisa l'Emilia di Elisabetta Martorana. Con loro Antonello Ceron (Roderigo), Mattia Denti (Lodovico), Matteo Ferrara (Montano) e Salvatore Giacalone (Un araldo).
Ottimo l'apporto del coro preparato da Claudio Marino Moretti e dei Piccoli Cantori Veneziani diretti da Diana D'Alessio.
Teatro esaurito, pubblico visibilmente soddisfatto, moltissimi applausi. Lo spettacolo sarà ripreso nelle prossime due estati e adattato per il cortile di Palazzo Ducale, dove Otello è già andato in scena per cinque stagioni negli anni Sessanta. Una novità i sovratitoli anche in inglese.